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l'Ospite

Le speranze dell'Amazzonia

Il tema dell'inculturazione è il tema dell'incarnazione. Piste per comprendere le speranze che vengono dall'Amazzonia.

Il Sinodo sull’Amazzonia che si terrà in Vaticano dal 6 al 27 ottobre, che contestualizza «Nuovi cammini di Chiesa per un'ecologia integrale», metterà in luce che i popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci, per cui occorre dialogare con queste sapienze ancestrali in cui si manifestano dei semi del Verbo, che sono sguardi di contemplazione per una speranza che riguarda tutta l’umanità.

A tal proposito va sottolineato quanto affermato su Regno-doc. del 1° settembre 2019. Il tema di fondo – che s’impone all’attenzione della Chiesa cattolica universale con il Sinodo di ottobre – è quello dell’inculturazione, posto dal concilio Vaticano II ma poi non percorso nei decenni successivi, che anzi hanno visto una progressiva centralizzazione e uniformazione delle espressioni liturgiche, teologiche e pastorali della Chiesa di Roma.

Ma «la diversità originale offerta dalla Regione amazzonica – biologica, religiosa e culturale – evoca una nuova Pentecoste», fino alla proposta di considerare l’«ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni… sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile», e di «identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica».

La nostra considerazione partirà da un orizzonte più vasto sia teologico che filosofico.

La riflessione teologica afferma che nell’esperienza cristiana la parte connessa alla rappresentazione visuale è particolarmente importante. Basti pensare al posto che occupa la visione interiore negli Esercizi spirituali di S. Ignazio e l’immagine nella pittura sacra, in quanto supporto della meditazione e rappresentazione d’uno sguardo interiore.

Interessanti, a tal proposito, le pertinenti osservazioni di C.H. Roquet su Yeronimus Bosch in quanto pittore religioso. La sua opera è presentata come l’analogo pittorico dell’esperienza mistica, costituita da una serie di “sguardi” che si elevano e si epurano fino all’invisibile. Il postulato teologico che fonda il primato dello sguardo è l’incarnazione: Dio si è fatto uomo, quindi visibile.

Anche la biografia degli uomini che si situano nella sequela dell’unica immagine adeguata, Gesù di Nazaret, può essere colta dallo sguardo dei credenti come una sua trasparenza: san Francesco d’Assisi, Charles de Foucauld. Più precisamente siamo autorizzati a considerare la vita di questi cristiani eccezionali come una parte della vita del Cristo, il risorto che effonde il suo Spirito e anima la comunità dei discepoli attraverso i secoli. Essi sono in Cristo; il Cristo è in loro (cf. Gal 1,22; Rm 8,10). Perché la vita del Cristo non può essere detta senza l’intero Nuovo Testamento, senza l'intera storia del "movimento" che ha preso origine dal Vangelo, senza la vita dei suoi seguaci nel corso dei secoli.

«Quello che abbiamo udito, visto con i nostri occhi, contemplato, e le nostre mani hanno toccato la Parola di Vita» (1Gv 1,1). I testimoni hanno ascoltato questa realtà, l’hanno vista con i propri occhi, «contemplata», e le loro mani l’hanno toccata perché voi siate in comunione con Gesù Cristo. «Mostrò loro le mani e il costato» (Gv 20,25). A Tommaso «metti qui il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato» (Gv 20,27). Agli apostoli «Guardate le mie mani e i mie piedi. Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho e mostrò loro le mani e i piedi e mangiò una porzione di pesce arrostito che gli offrirono» (Lc 24,39-43).

La filosofia ci dice che la moralità… è sacrificio di sé, benevolenza, amore, altruismo, compassione, umanitarismo, o addirittura naturalismo alla francescana che comanda di rispettare, proteggere e amare anche gli animali (B. Croce). Questa ermeneutica permette di comprendere completamente, totalmente e in profondità le speranze che provengono dall’Amazzonia.

Commenti

  • 10/10/2019 Pietro Romeo

    “Haec Ecclesia … subsistit in ecclesia catholica” (LG 8). Dagli atti del Concilio risulta che questa espressione fu scelta con l’intento di rompere con l’identificazione “Extra Ecclesia nulla salus”. La nuova formula consente di riconoscere nelle altre Chiese cristiane l’esistenza di “parecchi elementi di santificazione e di verità” (LG 8), e dunque gli elementi reali del mistero della Chiesa. Inoltre, il Concilio ricorda, prima di tutto, che “Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il Regno dei cieli” (LG 3).

    Più precisamente, la nascita della Chiesa coincide con l’avvento del Regno di Dio in Gesù Cristo che si manifesta in parole e in opere (LG 5). Questo tema del Regno di Dio, viene trattato in modo piuttosto nuovo dalla lettera enciclica Redemptoris missio di san Giovanni Paolo II (1990); in particolare il secondo capitolo ricorda che il Regno di Dio si avvicina e Gesù rivela gradualmente le caratteristiche e le esigenze di questo Regno.

    Esso è destinato a tutta l’umanità. Due gesti caratterizzano la missione di Gesù: il guarire e il perdonare e così “il Regno mira a trasformare i rapporti tra gli uomini e si attua progressivamente, man mano che essi imparano ad amarsi, perdonarsi, a servirsi a vicenda… perciò, la natura del Regno è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio… lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino, che è presente nella storia umana e la trasforma” (n. 15).

    Ma c’è di più, in questo secondo capitolo, si spiega la funzione della Chiesa in rapporto al Regno escatologico: “la Chiesa è sacramento di salvezza per tutta l’umanità, e la sua azione non si restringe a coloro che ne accettano il messaggio” (n. 20). Dunque, nella sua realtà storica il Regno di Dio si estende al di là della Chiesa, all’intero genere umano laddove agiscono i valori evangelici e le persone sono aperte all’azione dello Spirito. Ciò dimostra che il Regno di Dio è una realtà universale, estesa oltre i confini della Chiesa.

    E’ la realtà della salvezza in Gesù Cristo in cui partecipano insieme i cristiani e “gli altri”. È’ il fondamentale mistero dell’unità che ci unisce più profondamente delle differenze religiose che ci dividono. Infine, è ancora il Concilio che ci ricorda: “Tutti gli uomini sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, alla quale in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, che dalla grazia di Dio sono chiamati alla salvezza (cf. LG 13).

    Questo tema viene poi spiegato e specificato in dettaglio: i cattolici plene incorporantur; i catecumeni coniunguntur (cf. LG 14-15); quelli “che non hanno ancora ricevuto il Vangelo in vari modi ordinantur al popolo di Dio” (LG 16).

    Ora, il Sinodo panamazzonico ci pare, tra le altre cose, vada incontro a questi proclami del magistero tentando di ricomporre in unità le diversità e le individualità continuando a partire dalla relazione uomo-Dio, uomo-mondo. In questo senso papa Francesco ci richiama a una conversione ecologica “che richiede un cambiamento duraturo e una conversione comunitaria” (cf. LS 219) che porti con se “la consapevolezza che ogni creatura riflette qualcosa di Dio e ha un messaggio da trasmetterci, … la certezza che Cristo ha assunto in sé (nella sua incarnazione) questo mondo”.

  • 10/10/2019 carissimavaleria@gmail.com

    La domanda finale dell'ultimo commento merita un'attenta risposta. Da sempre, nel percorso storico teologico della Chiesa si sono confrontate due visioni del ruolo della Chiesa. Da un lato, la visione egemonica che vuole che la Chiesa attiri, anzi obblighi il mondo alla conversione. Dall'altra, la visione delle due città di agostiniana memoria, che vede mescolate insieme nella realtà umana la città di Dio e la città degli uomini, senza che una domini sull'altra.

    Su questa visione si basa l'idea di carità dell'insegnamento cristiano, mentre l'altra visione ha portato all'idea di egemonia e della Chiesa di potere, non di servizio all'uomo. La teologia dell'Incarnazione, di un Dio diventato uomo, nato, cresciuto e morto per gli uomini, indica la strada del rispetto delle culture umane, ovvero dell'inculturazione, come strada maestra per la Chiesa. Non si diventa cristiani rinnegando l'umanità, ma proprio a partire dalla nostra umanità che Gesù Cristo ha amato fino alla morte.

    Ricordando che Deus caritas est, non è possibile né imporre al mondo la fede cristiana, senza mostrare l'amore di Dio, né dimenticare che il Vangelo non è una teoria morale o politica ma la buona novella dell'amore di Dio. La Chiesa rivendica da sempre non il potere o la legge ma la vicinanza all'uomo, sempre e comunque, in ogni luogo e in ogni tempo. La novità della Chiesa della seconda metà del Novecento è aver rivendicato in modo esplicito che "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d' oggi sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce della Chiesa", come inizia liricamente la Gaudium et spes. Il mondo diventerà cristiano quando realizzerà l'amore di Dio, non quando sarà imposto l'ordine sociale stabilito.

  • 07/10/2019 Enzo Granese

    La necessaria ricostruzione della sfera dei valori richiede di cercare le vie dalla sapienza educativa. Esse devono essere in grado di preparare un futuro ricco di umanità, anche se talvolta queste strade possono consigliare di tornare indietro a ricercare qualcosa che si è perso sulla strada sconnessa dell’esodo.

    Oggi si parla di valorizzare la pedagogia del rovescio come metodologia che sa guardare alla tela lacerata dell’esistenza dal lato rovinato che chiede di non utilizzare una pedagogia descrittivistica, per tentare di ritessere l’ordito lacerato di una pedagogia che non può evitare di coltivare il tema del perché educare: l’idea di fine dell’educazione è quella del volto dell’uomo che si vuole coltivare e accarezzare

    In questo percorso certamente, anche, l’Amazzonia è coinvolta. Nei suoi modi locali, nella devastante crisi valoriale, essa dispone di notevoli risorse valoriali dalle quali occorre partire per fare parete alla policrisi a cui non sfugge e per dare avvio, anche sulla spinta del prossimo sinodo, alla rifioritura di una florida stagione dei valori. Ciò è possibile che si realizzi perché nelle famiglie amazzoniche pulsa l’esperienza cosmica. In esse «si trasmettono anche valori culturali come l’amore per la terra, la reciprocità, la solidarietà, il vivere nel presente, il senso della famiglia, la semplicità, il lavoro comunitario, l’organizzazione interna, la medicina e l’educazione ancestrale. Inoltre, la cultura orale (storie, credenze e canti), con i suoi colori, abiti, cibo, lingue e riti fa parte di questa eredità che si trasmette in famiglia. Insomma, è nella famiglia che si impara a vivere in armonia: tra i popoli, tra le generazioni, con la natura, in dialogo con gli spiriti» (Instrumentum laboris, 75). Purtroppo, anche in Amazzonia, i mezzi di comunicazione sociale di massa trasmettono modelli di comportamento, stili di vita, valori, mentalità che condizionano negativamente specie le nuove generazioni in quanto trasmettono una cultura che tende a imporsi e a uniformare il mondo interconnesso. L’aspetto positivo che la Chiesa amazzonica possiede una notevole infrastruttura di mezzi di comunicazione, specie di stazioni radio, ritenuti uno strumento molto importante per trasmettere lo stile di vita evangelico, i suoi valori e i suoi criteri, oltre che per informare sulla vita della regione. Questi mezzi servono anche agli indigeni per far conoscere i loro valori, che il mondo moderno non ha. In tal modo, la conoscenza del loro patrimonio valoriale può avere grande risonanza e aiutare la conversione ecologica della Chiesa e del pianeta. Proprio questa è la Chiesa che Gesù ha sognato: i suoi li chiamava “discepoli” e la comunità che essi componevano era, conseguentemente, discepolare (cfr. Hermann-Josef Venetz, Così cominciò la Chiesa. Sguardo sul Nuovo Testamento; Gerhard Lohfink, Come Gesù voleva la sua comunità? La Chiesa quale dovrebbe essere oggi). Tale forma di Chiesa è così fondamentale e comprensiva di sensi da poter essere considera come l’unica “figura” o il solo “modello” in cui possono convergere i tratti caratteristici della Chiesa e in cui «attraverso l’ascolto reciproco dei popoli e della natura, la Chiesa si trasforma in una Chiesa in uscita, sia geografica che strutturale; in una Chiesa sorella e discepola attraverso la sinodalità» (Instrumentum laboris, 92). In questo modo si coinnestano due forme educative sotto la grande e sicura volta di una Chiesa che vive di ascolto e di dialogo, ossia che si pone come «Chiesa sinodale» proprio perché è «discepola e maestra» (92).

    Infatti, l’anima di una Chiesa sinodale è anzitutto l’imitazione del Dio trinitario, fonte prima di sinodalità, in particolare, quale discepola del Maestro interiore che è lo Spirito Santo (cfr. Michele Giulio Masciarelli, Sinodalità e Spirito Santo). Il modo concreto che la Chiesa può adottare, per diventare discepola e maestra, è imitare Maria che è «la prima e più perfetta discepola di Cristo» (san Paolo VI) e, perché discepola, lei diventa anche maestra della Chiesa. È da sottolineare il passaggio che si opera in Maria di Nazaret dalla competenza discepolare alla competenza educativa: tale movimento non comporta che lei lasci la condizione di discepola per assumere quella di maestra. Dunque, Maria continua a essere discepola anche nell’esercizio educativo che esercita a lungo e in tante direzioni; anzi è la condizione discepolare che rende Maria maestra ed educatrice. Infatti, Maria è Maestra insegnando discepolanza a Cristo (cfr. Michele Giulio Masciarelli, Discepola). La Chiesa amazzonica, guardando a Maria, quale discepola e maestra, al sinodo troverà maniera di ispirarsi a lei nel far missione nel modo più essenziale del termine. Maria, infatti, non le è, né le sarà, di esempio nella missione educativa in aspetti secondari o solo importanti, ma in quelli essenziali, soprattutto nell’impegno a far conoscere e a portare ai suoi popoli la persona di Gesù (cfr. Instrumentum laboris, 43). Sullo sfondo di ogni discorso sulla Chiesa amazzonica c’è il richiamo all’opera dello Spirito, il primo “Consigliere” della Chiesa, il grande “Maestro interiore”, l’invisibile “Suggeritore del bene” nella storia e dei singoli e delle genti. In concreto, nel «tutto è connesso» (Instrumentum laboris, 8, 20, 21, 69), implicitamente è contenuta l’idea di fondo che è l’«integralità» fra educazione e profezia cristiana. «Nella voce dei poveri è lo Spirito; per questo la Chiesa deve ascoltarli, sono un luogo teologico.

    Nell’ascolto del dolore, il silenzio diventa necessario per poter ascoltare la voce dello Spirito di Dio. La voce profetica implica un nuovo sguardo contemplativo capace di misericordia e di impegno. Come parte del popolo amazzonico, la Chiesa ricrea la sua profezia, a partire dalla tradizione indigena e cristiana» (144). C’è un’importante innovazione che va operata in campo educativo: la personalizzazione dei valori. Essi provengono dalla tradizione, vanno fatti propri e rinnovati attraverso una scelta personale. Educare significa tramandare valori, stili di vita, ragioni di fiducia negli uomini e di speranza verso il futuro. Purtroppo, negli ultimi decenni, almeno in Occidente, è venuta gravemente meno la traditio lampadis (cfr. Giovanni Amos Comenio). Educare significa ricordare e ricercare, conservare e tramandare la sapienza di vita, ossia la verità, la bontà, la bellezza che le generazioni passate hanno espresso, al fine di accrescerle e di rinnovarle. Educare è porsi alla ricerca delle proprie radici e conservarle. Non è male tenere il piede in due staffe: conoscere il moderno e conservare anche la tradizione. Dovunque ci si trova occorre sempre tener presente entrambe le cose. Si tratta, anzitutto, di evitare una frattura epocale fra la grande tradizione e la modernità, che si presenta, purtroppo, rappresentata prevalentemente dalla sola tecnologia. Di conseguenza si comprende che la tecnologia non basta. Purtroppo il mondo dell’educazione ha sostituito la formazione con l’istruzione e con le iniziazioni alle tecnologie che, negli ultimi decenni, sono diventate omnipervasive e onnicomprensive nella proposta educativa degli ordinamenti scolastici. Si tratta anche di superare un’altra grave frattura che riguarda l’aver perso l’«identità culturale» e la «lingua». Infatti, si riconosce di aver perso l’«identità culturale», la «lingua» della propria terra, della propria gente. Tuttavia, è bella e intrigante la sfida che si pone dinanzi: si è chiamati a operare una grande sintesi epocale, quella fra il «moderno» da conoscere e la «tradizione» da conservare. Di fatti «tanto le cosmovisioni amazzoniche che quella cristiana sono in crisi a causa dell’imposizione del mercantilismo, della secolarizzazione, della cultura dello scarto e dell’idolatria del denaro [cfr. Evangelii gaudium, 54-55].

    Questa crisi colpisce soprattutto i giovani e i contesti urbani che perdono le solide radici della tradizione» (Instrumentum laboris, 27). Fondale fisso dell’educazione dei popoli amazzonici è l’aderenza alla terra e al fascio di significati che tale parola racchiude. Suo scopo è un evento formativo nel segno mai dimenticato dell’ecologia integrale. Questa è la cosmovisione che comprende la chiamata a liberarsi da una visione frammentata della realtà, perché incapace di percepire le molteplici connessioni, interrelazioni e interdipendenze (cfr. Laudato si’, 95). Ecologia integrale significa, inoltre, una forma di educazione che non esclude i singoli, ma privilegia il parlare dei popoli all’insegna della responsabilità: una dimensione, questa, sfortunatamente dimenticata un po’ dovunque in Occidente, ma che da sempre in America latina ha mantenuto attenzione alta: basti l’esempio della «pedagogia della coscientizzazione» (cfr. Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, L’educazione come pratica di libertà).

    Già nel Novecento s’era ripreso a parlare di educazione come incontro (cfr. Martin Buber, Incontro. Frammenti autobiografici). Piacevole è la sorpresa di vedere che l’Instrumentum laboris, a sua volta, parli di «educazione come incontro» (cfr. Laudato si’, 40, 93, 94, 97). Non solo, ma è interessante il fatto che, all’interno del discorso educativo-pastorale, si parli più volte ed esplicitamente di «incontro con Cristo» (cfr. Laudato si’, 36, 37). Poiché la persona di Cristo è l’essenza del Cristianesimo (cfr. Romano Guardini, L’essenza del cristianesimo) in terra cristiana insegnare altro è fuorviante; insegnare saltando questo tema è fare un’educazione gravemente monca. Occorre, oltre a parlare di Cristo, anche originare l’incontro con Lui. Fra l’altro, si tratta di una scelta bella, poiché con la bellezza si dà l’incontro, mentre col brutto si dà, solo e sempre, il disincontro.

  • 07/10/2019 Adele Savoia

    Le riflessioni di p. Bruno Marra su "Le Speranze dell'Amazzonia" in occasione del Sinodo che si terrà in Vaticano dal 6 al 27 ottobre p.v., sono ampiamente condivisibili. In particolare l'inculturazione, definita da Papa Giovanni Paolo II: <<l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l'introduzione di esse nella vita della Chiesa» (enciclica Slavorum Apostoli, 1985). L'intera questione, a mio avviso, deve essere "illuminata" dal comandamento che ci ha dato Gesù, <> (Matteo 22, 39). Amare è riconoscere l'altro come pari a noi, quindi rispettarlo, condividerne e partecipare alle sue difficoltà e aspirazioni. Noi cristiani, se amiamo veramente il nostro prossimo, inteso come qualsiasi uomo della terra, che è nostro fratello, in quanto creatura di Dio, dobbiamo accettarne le diversità e capire le vere esigenze, non solo materiali di questo fratello. La Chiesa in quest'ottica, riguardo ai popoli indigeni dell'Amazzonia, nel riconoscere ad essi ed alle loro culture una "dignità" pari a quella "occidentale" e quindi, nel rispetto delle loro tradizioni anche religiose, deve fare tutto ciò che è possibile per venire incontro alle esigenze materiali e soprattutto spirituali di questi popoli, portando il messaggio di Amore del Vangelo e sostenendo i convertiti nella loro fede, con tutti i mezzi possibili, assicurando loro l'incontro domenicale con Gesù nella messa e la "grazia sacramentale". La messa e i sacramenti rispondono ad un'esigenza primaria dell'uomo cattolico, in quanto realizzano l'incontro diretto con Gesù e danno lo Spirito Santo che è la forza necessaria per affrontare la vita con la fiducia nell'Amore di Dio Padre, forza di cui oggi hanno particolarmente bisogno oggi quelle popolazioni. Proprio nell'ottica dell'Amore, considerata l'estrema difficoltà di realizzare ciò con i preti missionari (come sottolineato nel Documento del Sinodo dell'Amazzonia), bisogna valutare la proposta di «ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni… sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile» (cd. viri probati) e di «identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica». Avverso tale proposta si sono posti alcuni teologi e religiosi sostenendo la non derogabilità delle regole della Chiesa Cattolica circa i sacerdozio maschile e il celibato degli stessi sacerdoti. Siamo di fronte a due "valori" contrapposti: le "regole" della Chiesa e l'esigenza di un gran numero di cattolici di attingere la "grazia" dai sacramenti e dall'incontro domenicale con Cristo nella messa e, in particolare, nella Comunione. Quale di questi deve ritenersi prevalente? Secondo me per rispondere dobbiamo guardare a Gesù che, pur rispettando la Legge del suo tempo, per "Amore" non ha esitato a derogarla nel caso in cui vi fosse un'esigenza prevalente: il bene dell'Uomo. Nei Vangeli più volte si legge di Gesù che guarisce persone malate in giorno di sabato: la guarigione di un indemoniato (Mc 1,21-28; Lc 4,31-37); della suocera di Simone (Mc 1,29-31; Lc 4,38- 39); di un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6; Mt 12,9-14; Lc 6,6-11); di una donna curva (Lc 13,10-17); di un idropico (Lc 14,1-6); di un infermo alla piscina d Betzaetà (Gv 5,1-18); di un uomo cieco dalla nascita (Gv 9,1-41). Queste pagine danno una chiara risposta alla questione, Gesù ci insegna che le leggi date da Dio, e anche la legge del sabato, sono state date perché l’uomo viva grazie ad esse e non muoia a causa loro e che, quindi, le regole sono al servizio dell'uomo e non contro l'uomo. Io ritengo che l'esigenza di ricevere la "grazia" nei sacramenti e con la messa domenicale, sia imprescindibile per un cattolico, e, quindi prevalga sulla regola che, se ritenuta inderogabile, impedirebbe ad un gran numero di cattolici di ricevere tale "grazia". Peraltro l'ordinazione dei cd. "viri probati" risponderebbe ad un'altra esigenza dei popoli indigeni, in quanto questi "religiosi" provengono da quelle realtà da tutta la vita e quindi agirebbero in modo certamente rispettoso di quelle culture e delle particolari "forme" religiose di quei popoli, rendendo il messaggio cristiano più comprensibile ed accettabile ai cd. indigeni ed agevolando l'inculturazione. In tal senso il Card. Claudio Humes, arcivescovo emerito di San Paolo, ha affermato che <> A favore dell'ordinazione dei "viri probati" si sono espressi diversi religiosi, primo mons. Fritz Lobinge a cui si è riferito, nell'intervista in questa rivista n. 10/2019 p. Antonio Josè de Almeida che ha affermato: <<il "diritto della legge" non può ostacolare o pregiudicare il "diritto della grazia">>.

  • 07/10/2019 Giulia Rosa

    Il Sinodo sull’Amazzonia testimonia di qualcosa di generale che riguarda un modo di essere e di pensare della Chiesa cattolica. È la tendenza a confondere l’universale con il non-distinto. Difatti a partire dalla II metà del Novecento un'ideologia epica di ambito planetario è andata emergendo la prima volta nella stessa muovendo da un nucleo rappresentato dalle formulazione dei diritti umani. Di essa sono venuti progressivamente a far parte il pacifismo, l’ecologismo e quant’altro potesse essere compreso in una indistinta prospettiva mondialistica buonista. Mi domando: invece di fare cristiano il mondo la Chiesa finirà invece per farsi uguale al mondo?

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