La fratellanza umana e il dialogo interreligioso
Il 20 e il 21 giugno 2019 presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale - Sezione San Luigi - dei padri gesuiti si terrà un Convegno che si concluderà con una relazione di papa Francesco intitolata «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo». Inoltre sarà presentato il Documento sulla fratellanza umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal gran imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib.
A tal proposito è utile notare che il fondamento di tale documento va ricercato nella Nostra aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, in particolare nel n. 2.
Vi si legge: «Dai tempi più antichi fino a oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso».
Il concilio Vaticano II ha avuto il coraggio di formulare un giudizio positivo non solo sulla capacità umana di conoscere Dio, come a suo tempo il Vaticano I, ma anche sull’esperienza religiosa concreta e sulla risposta che l’uomo di fatto compie nelle forme sociali storicamente note. E va sottolineato soprattutto che il testo conciliare esprime questa valutazione in termini di esperienza, di vita, di riconoscimento di una presenza.
Le formulazioni conciliari mostrano una certa prudenza dettata sia da reminiscenze bibliche – relative al giudizio severo della Bibbia nei confronti dei pagani – sia dalla cautela scientifica degli specialisti di storia delle religioni, che mostrano difficoltà a trarre conclusioni fenomenologiche di portata generale, a coniare definizioni chiare e precise, a proporre categorie applicabili a più religioni – non minimizzando, peraltro, l’importanza e la ricchezza delle diverse attività religiose nella vita delle società umane –, avendo la consapevolezza di conoscere soltanto parzialmente questo patrimonio di cui intravedono tutta l’estensione.
Semi di verità
La cautela degli studiosi nasce anche da un atteggiamento spirituale – faticosamente acquisito – in sintonia con quello del Concilio, avendo smesso di respingere le tenebre esteriori (prelogismo o paganesimo, animismo o feticismo) in quanto non rientranti – di primo acchito – nelle proprie categorie, accettando d’imparare qualcosa dagli altri e scoprendo che le apparenze, a volte sconcertanti, non sono più oggetto di disprezzo o incomprensione, ma possono ispirare nuove modalità di vivere l’esperienza religiosa autentica o nuovi aspetti di essa che altrimenti sarebbero trascurati.
Si è maturato, così, un insieme di atteggiamenti che assumono la portata di una vera e propria ascesi: accettazione del fatto religioso come esperienza irriducibile ad altre categorie (soprattutto filosofiche), rinunziando a darne una spiegazione per non ridurla a ciò che non è; inoltre lo studioso che vive l’esperienza cristiana diviene disponibile a riconoscere nelle religioni pagane alcune strutture – intuizioni globali sull’uomo e sulla vita e modi di valorizzarli – più vicine al nucleo essenziale del cristianesimo di tutte le interpretazioni e argomentazioni di tipo razionale.
Il Concilio, superando le perplessità di taluni cristiani (che li hanno portati ad affermare che «il cristianesimo non è fatto per l’Africa») tende a riconoscere le affermazioni di taluni africani, non cattolici, che si dicono profondamente e totalmente religiosi. E questo riconoscimento vale non solo per gli africani, ma per i popoli di altri continenti e non soltanto per le grandi civiltà.
Non c’è malinteso nella dichiarazione dell’uomo del terzo mondo che si proclama religioso e fa riferimento a strutture autenticamente religiose; non si può parlare di animismo, feticismo o magia (che si possono rinvenire in ogni religione vista dal versante esteriore e popolare); questi fenomeni non costituiscono tutta la religione di un determinato popolo. Anche il termine «politeismo» è inadeguato, essendo solo parte di una determinata religione.
Nella maggior parte dei popoli conosciuti la vita è impregnata di religione e non si può parlare di «popoli senza religione», affermazione fatta da coloro che definiscono la «religione» secondo i criteri del proprio Credo.
La civiltà occidentale sta imponendo violentemente alle altre una «laicizzazione progressiva», distruggendo le loro strutture religiose – in particolare quelle delle cosiddette «società inferiori» – senza volerle o poterle rimpiazzare, allo stesso livello di profondità interiore, con altre strutture religiose. Non è possibile stabilire una definizione normativa o nozionistica di «religione» applicabile a più religioni, mentre si può applicare loro una definizione di tipo funzionale o fenomenologico.
Joseph Goetz nel volume L’esperienza di Dio nei primitivi. Saggi di etnologia religiosa (Morcelliana, Brescia 1983) afferma che in termini psicologici la religione può essere definita una volontà e un sistema dell’individuo nel tutto, quale egli lo conosce; l’individuo assume un atteggiamento di armonia e partecipazione, volontaria e attiva, a tutto il proprio universo, sforzandosi di assumere un comportamento giusto nei confronti di tutta la realtà (Dio compreso), quale la sua esperienza la propone alla sua coscienza.
Le pratiche religiose sono le modalità con cui l’uomo cerca di esprimere questa armonia di sé stesso con il tutto. Per l’uomo religioso «primitivo» non conta tanto la speculazione teorica o le fedeltà al rito, ma soprattutto l’atteggiamento interiore con cui tali espressioni sono vissute. Presso i popoli non laicizzati, è proprio questo atteggiamento che è «profondamente religioso».
Il cristianesimo "non è fatto per l'Africa"?
Inoltre non è corretto dire che «il cristianesimo non è fatto per l’Africa» (o per altre culture consimili). Questa locuzione può significare o – da un lato – che nelle religioni pagane si vede solo utilitarismo, eudemonismo, lotta contro la paura e la disperazione, mentre il cristianesimo ha una dimensione metafisica, teologica e mistica (mostrando in questo caso di non conoscere le religioni pagane), ovvero – dall’altro – che il cristianesimo è considerata una filosofia razionalista con una liturgia pomposa, una casistica complicata, un giuridismo individualistico in contrapposizione all’intensa vita collettiva, allo spirito comunitario, alla partecipazione cosmica che caratterizzano le religioni pagane (mostrando dunque di non aver ben compreso il cristianesimo).
Anche le religioni dei «primitivi» (popoli considerati convenzionalmente «attardati» per le loro linee di evoluzione diverse dalla nostra) hanno per oggetto la vita, di cui l’ordine del mondo è il quadro esterno, un «cosmo», non un ordine logico o meccanico ma un’armonia vivente, un tutto vivente di cui ogni essere, soprattutto l’uomo, ognuno al suo posto e nella sua misura, è partecipe; il male consiste nel non essere regolarmente integrato in questo tutto.
Per queste religioni, la vita non è un’astrazione, ma è personificata nei grandi simboli comuni a tutte le religioni. Sotto il profilo degli atteggiamenti interiori, la Vita è vista e vissuta sotto due aspetti inseparabili e complementari: morte e nascita, nascita e morte. Questa è l’opzione fondamentale di tutte le religioni, il resto sono solo «pratiche».
Qualora la religione venga presentata come una pura spiegazione razionale del mondo (dal nulla originario fino al compimento della salvezza) il «primitivo» non vi troverà alcun interesse. Qualora, invece, Cristo venga presentato quale egli è – colui che nasce, che muore, che risuscita, che è luce e vita, archetipo e Dio al tempo stesso – il rischio sarà che i pagani vi riconoscano il proprio mito o i propri riti.
Bisogna perciò presentare anche Cristo povero e umile, non ricco e dominante secondo la visione occidentale; per il pagano Cristo è veramente Dio che si manifesta, Vita che vivifica, l’Essere misterioso e nascosto che «vive la morte degli altri e muore la vita degli altri». Bisognerà far capire ai pagani, le differenze tra questo Cristo e i propri archetipi, senza passare per la mediazione di categorie di tipo filosofico, anziché religioso.
Non è affatto evidente che il dialogo col cristianesimo esiga dal pagano una rinunzia preliminare alla propria visione d’insieme: il dialogo deve consistere in un incontro degli spiriti, al di là delle applicazioni particolari, al livello della visione, inserendo in questo orizzonte l’annunzio della novità apportata da Cristo; è doveroso «non profanare» (p. J. Dournes).
Muoversi sul piano dell'esperienza di Dio
Per comprendere l’idea di Dio presso queste culture meno evolute non bisogna muoversi sul piano dei concetti ma sul piano dell’esperienza, della realtà in cui si può cogliere il contenuto di queste credenze. L’esistenza di Dio è un’esperienza, ma altrettanto lo è la sua ineffabilità; produce scandalo sia parlare di «Dio» come qualcosa che si è visto sia mettere in dubbio la sua esistenza.
Anche nei fenomeni che vengono definiti «animismo» o «mentalità magica» viene attribuito a Dio un ruolo decisivo. La sua essenza è di essere l’«altro» in un senso ben preciso, simbolizzato dal Cielo, la cui visione è associata all’idea di presenza. Il «primitivo» vede soprattutto la Sua presenza all’uomo, la presenza degli uomini davanti a Lui, al di là di tutte le variabili del mondo. Non si può sostenere che gli uomini a un certo punto della loro evoluzione siano arrivati all’idea di Dio Padre; è ai livelli più primitivi, viceversa, che la si ritrova più facilmente.
Il n. 2 della Nostra aetate in sostanza offre gli strumenti indispensabili per la comprensione del fenomeno religioso, in modo tale da stabilire un equilibrio universale tale che in esso tutte le esperienze possono ricomprendersi e ricomporsi. Questo rende un «servizio efficace» all’uomo di sempre, in modo da superare le barriere e le divisioni e in modo da poter stabilire un parallelismo armonico che renda possibile quanto afferma un detto apocrifo di Gesù: «Chi vede il suo fratello, vede il suo Dio».