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l'Ospite

La fratellanza umana e il dialogo interreligioso

Il 20 e il 21 giugno 2019 presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale - Sezione San Luigi - dei padri gesuiti si terrà un Convegno che si concluderà con una relazione di papa Francesco intitolata «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo». Inoltre sarà presentato il Documento sulla fratellanza umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal gran imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib.

A tal proposito è utile notare che il fondamento di tale documento va ricercato nella Nostra aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, in particolare nel n. 2.

Vi si legge: «Dai tempi più antichi fino a oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso».

Il concilio Vaticano II ha avuto il coraggio di formulare un giudizio positivo non solo sulla capacità umana di conoscere Dio, come a suo tempo il Vaticano I, ma anche sull’esperienza religiosa concreta e sulla risposta che l’uomo di fatto compie nelle forme sociali storicamente note. E va sottolineato soprattutto che il testo conciliare esprime questa valutazione in termini di esperienza, di vita, di riconoscimento di una presenza.

Le formulazioni conciliari mostrano una certa prudenza dettata sia da reminiscenze bibliche – relative al giudizio severo della Bibbia nei confronti dei pagani – sia dalla cautela scientifica degli specialisti di storia delle religioni, che mostrano difficoltà a trarre conclusioni fenomenologiche di portata generale, a coniare definizioni chiare e precise, a proporre categorie applicabili a più religioni – non minimizzando, peraltro, l’importanza e la ricchezza delle diverse attività religiose nella vita delle società umane –, avendo la consapevolezza di conoscere soltanto parzialmente questo patrimonio di cui intravedono tutta l’estensione.

Semi di verità

La cautela degli studiosi nasce anche da un atteggiamento spirituale – faticosamente acquisito – in sintonia con quello del Concilio, avendo smesso di respingere le tenebre esteriori (prelogismo o paganesimo, animismo o feticismo) in quanto non rientranti – di primo acchito – nelle proprie categorie, accettando d’imparare qualcosa dagli altri e scoprendo che le apparenze, a volte sconcertanti, non sono più oggetto di disprezzo o incomprensione, ma possono ispirare nuove modalità di vivere l’esperienza religiosa autentica o nuovi aspetti di essa che altrimenti sarebbero trascurati.

Si è maturato, così, un insieme di atteggiamenti che assumono la portata di una vera e propria ascesi: accettazione del fatto religioso come esperienza irriducibile ad altre categorie (soprattutto filosofiche), rinunziando a darne una spiegazione per non ridurla a ciò che non è; inoltre lo studioso che vive l’esperienza cristiana diviene disponibile a riconoscere nelle religioni pagane alcune strutture – intuizioni globali sull’uomo e sulla vita e modi di valorizzarli – più vicine al nucleo essenziale del cristianesimo di tutte le interpretazioni e argomentazioni di tipo razionale.

Il Concilio, superando le perplessità di taluni cristiani (che li hanno portati ad affermare che «il cristianesimo non è fatto per l’Africa») tende a riconoscere le affermazioni di taluni africani, non cattolici, che si dicono profondamente e totalmente religiosi. E questo riconoscimento vale non solo per gli africani, ma per i popoli di altri continenti e non soltanto per le grandi civiltà.

Non c’è malinteso nella dichiarazione dell’uomo del terzo mondo che si proclama religioso e fa riferimento a strutture autenticamente religiose; non si può parlare di animismo, feticismo o magia (che si possono rinvenire in ogni religione vista dal versante esteriore e popolare); questi fenomeni non costituiscono tutta la religione di un determinato popolo. Anche il termine «politeismo» è inadeguato, essendo solo parte di una determinata religione.

Nella maggior parte dei popoli conosciuti la vita è impregnata di religione e non si può parlare di «popoli senza religione», affermazione fatta da coloro che definiscono la «religione» secondo i criteri del proprio Credo.

La civiltà occidentale sta imponendo violentemente alle altre una «laicizzazione progressiva», distruggendo le loro strutture religiose – in particolare quelle delle cosiddette «società inferiori» – senza volerle o poterle rimpiazzare, allo stesso livello di profondità interiore, con altre strutture religiose. Non è possibile stabilire una definizione normativa o nozionistica di «religione» applicabile a più religioni, mentre si può applicare loro una definizione di tipo funzionale o fenomenologico.

Joseph Goetz nel volume L’esperienza di Dio nei primitivi. Saggi di etnologia religiosa (Morcelliana, Brescia 1983) afferma che in termini psicologici la religione può essere definita una volontà e un sistema dell’individuo nel tutto, quale egli lo conosce; l’individuo assume un atteggiamento di armonia e partecipazione, volontaria e attiva, a tutto il proprio universo, sforzandosi di assumere un comportamento giusto nei confronti di tutta la realtà (Dio compreso), quale la sua esperienza la propone alla sua coscienza.

Le pratiche religiose sono le modalità con cui l’uomo cerca di esprimere questa armonia di sé stesso con il tutto. Per l’uomo religioso «primitivo» non conta tanto la speculazione teorica o le fedeltà al rito, ma soprattutto l’atteggiamento interiore con cui tali espressioni sono vissute. Presso i popoli non laicizzati, è proprio questo atteggiamento che è «profondamente religioso».

Il cristianesimo "non è fatto per l'Africa"?

Inoltre non è corretto dire che «il cristianesimo non è fatto per l’Africa» (o per altre culture consimili). Questa locuzione può significare o – da un lato – che nelle religioni pagane si vede solo utilitarismo, eudemonismo, lotta contro la paura e la disperazione, mentre il cristianesimo ha una dimensione metafisica, teologica e mistica (mostrando in questo caso di non conoscere le religioni pagane), ovvero – dall’altro – che il cristianesimo è considerata una filosofia razionalista con una liturgia pomposa, una casistica complicata, un giuridismo individualistico in contrapposizione all’intensa vita collettiva, allo spirito comunitario, alla partecipazione cosmica che caratterizzano le religioni pagane (mostrando dunque di non aver ben compreso il cristianesimo).

Anche le religioni dei «primitivi» (popoli considerati convenzionalmente «attardati» per le loro linee di evoluzione diverse dalla nostra) hanno per oggetto la vita, di cui l’ordine del mondo è il quadro esterno, un «cosmo», non un ordine logico o meccanico ma un’armonia vivente, un tutto vivente di cui ogni essere, soprattutto l’uomo, ognuno al suo posto e nella sua misura, è partecipe; il male consiste nel non essere regolarmente integrato in questo tutto.

Per queste religioni, la vita non è un’astrazione, ma è personificata nei grandi simboli comuni a tutte le religioni. Sotto il profilo degli atteggiamenti interiori, la Vita è vista e vissuta sotto due aspetti inseparabili e complementari: morte e nascita, nascita e morte. Questa è l’opzione fondamentale di tutte le religioni, il resto sono solo «pratiche».

Qualora la religione venga presentata come una pura spiegazione razionale del mondo (dal nulla originario fino al compimento della salvezza) il «primitivo» non vi troverà alcun interesse. Qualora, invece, Cristo venga presentato quale egli è – colui che nasce, che muore, che risuscita, che è luce e vita, archetipo e Dio al tempo stesso – il rischio sarà che i pagani vi riconoscano il proprio mito o i propri riti.

Bisogna perciò presentare anche Cristo povero e umile, non ricco e dominante secondo la visione occidentale; per il pagano Cristo è veramente Dio che si manifesta, Vita che vivifica, l’Essere misterioso e nascosto che «vive la morte degli altri e muore la vita degli altri». Bisognerà far capire ai pagani, le differenze tra questo Cristo e i propri archetipi, senza passare per la mediazione di categorie di tipo filosofico, anziché religioso.

Non è affatto evidente che il dialogo col cristianesimo esiga dal pagano una rinunzia preliminare alla propria visione d’insieme: il dialogo deve consistere in un incontro degli spiriti, al di là delle applicazioni particolari, al livello della visione, inserendo in questo orizzonte l’annunzio della novità apportata da Cristo; è doveroso «non profanare» (p. J. Dournes).

Muoversi sul piano dell'esperienza di Dio

Per comprendere l’idea di Dio presso queste culture meno evolute non bisogna muoversi sul piano dei concetti ma sul piano dell’esperienza, della realtà in cui si può cogliere il contenuto di queste credenze. L’esistenza di Dio è un’esperienza, ma altrettanto lo è la sua ineffabilità; produce scandalo sia parlare di «Dio» come qualcosa che si è visto sia mettere in dubbio la sua esistenza.

Anche nei fenomeni che vengono definiti «animismo» o «mentalità magica» viene attribuito a Dio un ruolo decisivo. La sua essenza è di essere l’«altro» in un senso ben preciso, simbolizzato dal Cielo, la cui visione è associata all’idea di presenza. Il «primitivo» vede soprattutto la Sua presenza all’uomo, la presenza degli uomini davanti a Lui, al di là di tutte le variabili del mondo. Non si può sostenere che gli uomini a un certo punto della loro evoluzione siano arrivati all’idea di Dio Padre; è ai livelli più primitivi, viceversa, che la si ritrova più facilmente.

Il n. 2 della Nostra aetate in sostanza offre gli strumenti indispensabili per la comprensione del fenomeno religioso, in modo tale da stabilire un equilibrio universale tale che in esso tutte le esperienze possono ricomprendersi e ricomporsi. Questo rende un «servizio efficace» all’uomo di sempre, in modo da superare le barriere e le divisioni e in modo da poter stabilire un parallelismo armonico che renda possibile quanto afferma un detto apocrifo di Gesù: «Chi vede il suo fratello, vede il suo Dio».

Commenti

  • 03/07/2019 Giulia Rosa

    Il dialogo interreligioso si basa sul n. 2 della Nostra aetate, che stabilisce la somiglianza fra tutte le religioni nel mondo. La similitudine fra le esperienze religiose si basa sul fatto che l’esperienza religiosa è atematica, e quindi non si possono fare delle vere e proprie distinzioni. Tuttavia esse differiscono nei contenuti e nelle forme e purtroppo tutte sono sottoposte a delle aberrazioni. Da questo punto di vista il Documento sulla fratellanza umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal gran imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib ,è un grande passo avanti per superare tutte le difficoltà e avvicinare tutte le esperienze religiose.

  • 17/06/2019 Pietro Romeo

    Trovo interessante il punto di vista di Adele Savoia quando dice: “E va sottolineato soprattutto che il testo conciliare esprime questa valutazione in termini di esperienza, di vita, di riconoscimento di una presenza”. In questo nostro tempo, che da più parti e da diversi specialisti di analisi sociologica, viene definito frantumato, dove le grandi questioni sociali sono definite precarie e in trasformazione, dove i dubbi sul nuovo mondo digitale e cibernetico sono infiniti, sentire che c’è “qualcosa” che accumuna l’umanità dovrebbe farci sentire come l’uomo della parabola: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo”. (Mt 13,44).

    Non c’è dubbio che l’esperienza religiosa è esperienza primordiale dell’umanità come nessun’altra. In essa si autocomprende in riferimento ad un Assoluto che la trascende e ne da il compimento. Nell’esperienza religiosa l’uomo scopre da una parte il suo limite, egli non comprende il tutto, e dall’altra gli si apre la possibilità di sentirsi nel tutto. E se proprio il limite, vissuto nell’esperienza religiosa, fosse una chiave di volta per comprendere il senso profondo della fratellanza? Nella Gaudium et Spes, al numero 16 si dice così: “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale”.

    Perché unirsi agli altri uomini per cercare la verità o per risolvere problemi morali? Forse perché sentiamo un limite in questa ricerca e abbiamo bisogno gli uni degli altri? E a quale verità si fa riferimento? Dal testo si potrebbe dire la verità di ciò che è bene per l’uomo, per ogni uomo? E non è bene per ogni uomo che abbia un punto di riferimento altro da sé e al quale tutti possano attingere? All’inizio del Documento sulla Fratellanza umana si dice: “Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli”.

    E dopo fa un richiamo esplicito alla coscienza: “Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti”. Ci pare che queste due citazioni siano un applicazione diretta, almeno negli intenti, della GS 16. Ma non possiamo non ricordare l’altro documento fondamentale del CV II la Lumen Gentium, al n° 16 si esprime in questi termini: “Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in vari modi sono ordinati (ordinatur) al popolo di Dio”. Di fatto, il testo dichiara un legame di solidarietà umana, morale e religiosa tra la Chiesa cattolica e i non cristiani. Dunque un’altra affermazione Conciliare, categorica e impegnativa, che rispecchia, a nostro avviso, il progetto salvifico universale di Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini operata, di fatto, nella morte e risurrezione di Cristo che è redenzione per tutti gli uomini: “Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo”. (1Cor 15, 21-22)

    Il Dio dell'esperienza religiosa non può essere raggiunto dai concetti specificatamente filosofici e dunque per essere detto senza perdere la sua trascendenza ha bisogno di un linguaggio diverso rispetto a quello astratto e concettuale, un linguaggio caratterizzato dai simboli della poesia e dalle figure antropomorfiche del mito, così come ha sottolineato p. Marra. L'esperienza religiosa non valuta negativamente o come riduttive le raffigurazione simboliche o antropomorfiche di Dio, molteplici, infatti, sono i passi biblici nei quali la divinità viene presentata nei simboli delle grandi teofanie, oppure attraverso elementi tipicamente umani, come lo sguardo, il tendere l'orecchio, gli occhi; oppure con descrizioni naturali come il fuoco, il vento; oppure con emozioni e passioni che caratterizzano l'uomo, quali la gelosia, lo sdegno, l'irritazione, ma anche il favore, la pazienza, l'aiuto. Quindi l'antropomorfizzazione per la religione è il modo più adatto per dire Dio e la sua trascendenza che altrimenti rimarrebbero indicibili. Insomma il mito, con il suo linguaggio simbolico è apertura alla verità e possibilità di portare Dio più vicino possibile all’uomo. alla base del simbolismo vi è dunque un'inscindibile unità di antropomorfismo divino e teomorfismo umano. L'antropomorfismo del simbolo però con la somiglianza non vuole eliminare la dissomiglianza tra uomo e Dio, ma anzi la presuppone (cfr. Gn 1,26).

    Pietro Romeo, Vicario generale Diocesi Locri-Gerace

  • 07/06/2019 Bruno Marra

    Fermo restando che la Nostra aetate è stato un evento epocale per lo studio del fenomeno religioso, conviene approfondire alcuni aspetti che possono aprire nuovi orizzonti alla ricerca, in particolare vale la pena riflettere sul rapporto tra mito e rivelazione.

    La storia di “mŷthos” = “parola”, sia nell’ambito della stessa lingua greca sia quando viene usato come vocabolo straniero in altre lingue indoeuropee, offre un significativo esempio del modo in cui un medesimo concetto può ora raggiungere un’altissima valorizzazione, ora venir fortemente svalutato. Si è molto trattato, nella ricerca scientifica, se originariamente “mito” sia concetto pertinente alla religione, ma oggi si propende a vedere il mito in origine come poesia, in posizione di indifferenza nei riguardi della religione, dell’ethos e della verità.

    In realtà agli inizi della predicazione evangelica nell’ambito della riflessione teologica la fede cristiana non poteva evitare il confronto con la “storia degli dei” quale prodotto religioso della cultura pagana antica, nel momento in cui era necessaria la propria “autocomprensione”, la verità rivelata doveva giustificarsi come insuperabile nei confronti del “mito” che poteva apparire soltanto come contraffazione della verità.

    Il messaggio di rivelazione del Nuovo Testamento si comprende come realtà e verità, per distanziarsi esplicitamente dai mŷthos intesi come finzione e ciò che è moralmente impugnabile (1Tim 4,7) e per affermarsi come alétheia in contrapposizione al mŷthos (2Tim 4,4).

    Questa esclusione di tutto ciò che è mitico come rifiuto di un dato assolutamente estraneo, con Agostino è diventato un paradigma ermeneutico rimasto intoccabile per secoli. Ma la teologia non può disinteressarsi del fenomeno “mito”. Difatti D.E. Strauss (1808-1874), nella sua Vita di Gesù (1835/36), ha esplicitamente inserito il concetto di mito nella sua interpretazione speculativa dei Vangeli, elevandolo a figura fondamentale della fede. Per la fede, per l’idea di fede, è costitutiva - secondo Strauss - non la realtà storica (historische) di Gesù, bensì la storia (Geschichte) di Gesù sviluppata nella forza dell’immaginazione religiosa. Così il credente si servirebbe semplicemente della forma del mito per presentare come vero e reale ciò che può essere pensato soltanto come idea.

    Mentre in Strauss la storia della fede cristiana viene intesa come una storia di idee velate da immaginazioni e che si articola mitologicamente, in Nietzsche, nel determinare il rapporto tra mito e rivelazione cristiana, il cristianesimo viene definito come semplicemente non mitico. Dalla contrapposizione tra Dioniso e il Crocifisso emerge palese il fatto che qui viene utilizzata una concezione del tutto diversa di ‘mito’. Significativa, sul piano degli effetti esercitati, per chiarire il problema del rapporto reciproco tra fede e mito, è stata in ogni caso la tesi di R. Bultmann, secondo cui la parola di rivelazione della predicazione cristiana della fede fu sostenuta già sin dagli inizi da concezioni mitiche, poiché un’immagine mitica del mondo faceva parte di quei presupposti culturali che rendevano possibile una autorappresentazione del pensiero cristiano. Beninteso, questa autorappresentazione cristiana ha costantemente mutato quelle tradizioni mitiche, rielaborandole nella precomprensione dell’autointerpretazione; tuttavia, il dato vero e proprio dell’annuncio è sempre stato velato da un modello mitologico, che può essere messo a nudo soprattutto nel mondo attuale del pensiero naturale-scientifico che non può più accettarlo. Ma, nella misura in cui queste forme espressive mitologiche non appartengono necessariamente al contenuto proprio della predicazione, Bultmann considera come compito decisivo della sua teologia liberare, mediante il lavoro di demitizzazione, l’essenza del kerygma, in modo tale che l’esistenza umana possa restarne colpita ed essere a sua volta liberata per una decisione esistenziale di fede.

    Senza mettere in discussione l’importanza della demitizzazione bultmanniana, occorre però chiedersi se, a parte le condizioni che orientano la concezione del mondo, vada liberata una esistenza detta ‘autentica’, indipendente dalla storia e dalla società. Una simile teologia della demitizzazione e dell’interpretazione esistenziale finirebbe necessariamente per condannare, svalutandolo, il rapporto con la storia e la società concrete come qualcosa di inadeguato alla comprensione dell’esistenza. Al fatto, gravido di conseguenze per la fede, che la comprensione cristiana della rivelazione si possa articolare costantemente anche come coscienza mitologica, K. Rahner fa riferimento con ogni chiarezza, là dove egli vede nel docetismo (o nel monofisismo) nascosto, ma presente in tutta la storia della fede, una riduzione mitica del dato antropologico (Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1967, 3-91).

    In questo senso in Rahner il concetto di mitico può essere inteso come delimitazione negativa di confini nei confronti della teologia. Come teologia trascendentale, infatti, essa deve riflettere sulle condizioni per la possibilità del discorso religioso, e grazie a ciò può analizzare e criticare metodologicamente ogni tentativo di cosificare in senso semplicemente categoriale i presupposti trascendentali. Tuttavia, questo programma chiaro, che vuole liberare la teologia da ogni sospetto di mitologia, non esclude in Rahner il fatto che il mito possa avere il senso positivo di una illustrazione simbolica costitutiva per una esplicazione della verità, nonché per l’idea che l’uomo si fa di se stesso nella storia.

    Il mito come “simbolo costituito da elementi della realtà... dell’assoluto inteso nell’atto religioso” è anche per P. Tillich (1886-1965) una possibilità legittima per il cristianesimo di esprimersi, presupponendo naturalmente che il linguaggio mitologico della fede sia già quello di un mito ‘infranto’, in cui, attraverso il pensiero critico, viene superata la cosificazione verbale. La tesi di Tillich, secondo cui «non c’è alcun’altra possibilità di parlare di Dio al di fuori dei concetti mitologici» (Systematische Theologie, 1956, vol. I, 259), mostra l’interesse di riconciliare, nell’ambito di una teoria del simbolo, la categoria del mitico con la pretesa della ragione teologica.

    Se si parte dall’idea che il mito e la religione, sotto un determinato aspetto fungono da modello e di valori e di azioni, che è in grado di guidare l’uomo in tutto il suo mondo vitale, e di guidarlo intenzionalmente, se si parte dal fatto che il mito e la religione mediano, in quanto assiologia, un sistema di ordine, che pone, non nello schema del discorso scientifico, logico, ma pure secondo una data regola, determinate strutture di rapporto, se si riconosce che il mito e la religione presentano le loro funzioni creatrici di senso con un atteggiamento di sincerità, allora sarà legittimo anche pensare ad ambedue i fenomeni in un rapporto di correlazione. Tuttavia, quando la religione si vuole critica, mentre sa di funzionare in questo modo, trova una qualità autoriflessiva con la quale supera il mito.

    Anche se non è facile ricomporre tutte queste dinamiche alla luce di Nostra aetate resta il fatto che l’uomo ha un libero rapporto con se stesso e non si possiede, perentoriamente, in tranquilla auto-evidenza. “Quando i discepoli videro Gesù gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano” (Mt 28,16), perché l’esperienza che stanno facendo è un’esperienza di fede, non è più semplicemente un’esperienza visiva fisica. 

  • 06/06/2019 Enzo Granese

    La dichiarazione Nostra aetate fu uno dei risultati più inattesi e straordinari del concilio Vaticano II. Su di essa si poggia e si sviluppa il dialogo della fraternità universale che non può avere soste e ritardi oggi più che mai considerando gli eventi storici.

    Infatti non fu un caso che la dichiarazione, dall’iniziale sottovalutazione e ostracismo, si evolvesse alla fine del Concilio in affermazioni inattese che favorirono gli sviluppi successivi delle relazioni non solo con la religione ebraica, ma anche con le religioni non cristiane. Questo giova sicuramente ancora oggi alla causa della pace.

    E’ un dato certo che sia per i cristiani che per gli ebrei questo documento conciliare è un punto di svolta che non conosce ritorno. Prima di tutto va detto che il termine cristianesimo va recepito in tutta la sua ampiezza in un orizzonte propriamente ecumenico, cioè attinente a rapporti sia intracristiani che interreligiosi. Quando da cristiani ci si interroga sulla qualità dell’incontro con l’altro non ci si possono permettere risposte che prescindono dall’esempio e dal comandamento di Gesù.

    Prendere l’altro sul serio, non vuol dire essere ingenuo, ma essere realista e lasciare che la realtà della persona metta in crisi i propri pregiudizi. Occorre vedere nell’altro uno che si forza di conformarsi alla volontà di Dio, consapevoli che discernere la sua volontà è un processo molto complesso, per tutti indistintamente. E’ chiaro che in ogni relazione si cerca un rapporto mutuo e di reciproca stima con un atto di gratuità: uno dei due deve assumersi il rischio di aprirsi all’altro nella vulnerabilità.

    Il valore evangelico non è la reciprocità, ma la gratuità che cerca la trasformazione dell’altro, che poi a sua volta si apre gratuitamente agli altri senza considerare un ritorno per se stesso. La dinamica dell’amore, incarnata in Gesù, è sempre un movimento verso l’altro, senza precondizioni ma con speranza.

    Nella maniera in cui il Padre ama il Figlio, così il Figlio ama i suoi e dà loro il comandamento dell’amore per gli altri. Per lunghi anni le religioni si sono ignorate e spesso delegittimate a vicenda. Talvolta sono arrivate anche alle manieri forti, così da giustificare l’impressione che in esse ci celasse una radice di violenza e che non vi potesse essere tolleranza. Le “guerre sante” hanno lasciato nell’immaginario collettivo una traccia incancellabile che ancora sanguina.

    Lungo i secoli si è assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio: uno per i cristiani, uno per i musulmani, accanto a quello per gli ebrei. Ogni credente si è rivolto al proprio Dio pensando che fosse diverso e magari in concorrenza con quello degli altri. Questa situazione poco piacevole e costruttiva, in quanto ha creato rivalità e lacerazioni, ha avuto una svolta proprio grazie alla Nostra aetate, che ha fatto comprendere che tutte e tre le religioni monoteistiche sono considerate degne di rispetto e depositarie di un patrimonio ricco di orientamenti etici spirituali, oltre ai valori sociali e culturali.

    Si è aperta una nuova stagione, con un nuovo linguaggio e nuove prospettive: sono luoghi dove operano il Verbo e lo Spirito; dove è possibile fare un’autentica esperienza spirituale; dove Dio si fa prossimo a ogni uomo per condurlo sulle vie della libertà e della verità. Ovviamente non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano smarrendo, le proprie connotazioni spirituali, quasi una religione valesse l’altra. Il confronto con l’altro non è mai una rinuncia alla propria identità, ma serve a comprendere meglio se stessi, l’altro, il suo mondo e la sua mentalità. La prospettiva interreligiosa s’intreccia così con l’impegno ecumenico, anzi lo esige come sua premessa e forza catalizzatrice.

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