Donne e diaconato
Mentre la Pentecoste si avvicina, una riflessione sullo Spirito Santo e il rischio del funzionalismo nella Chiesa, a partire dalla questione delle donne diacono.
Dire che «la Chiesa sta per rompersi» significa dar voce a uno spirito di desolazione e d’accanimento che mira a diffondere uno stato d’incertezza, di angoscia e di paura, e quindi fare propria una profezia di sventura sulla quale si è già espresso abbondantemente ed efficacemente a suo tempo papa Giovanni XXIII.
In realtà lo Spirito Santo è sempre all’opera, continua a guidare la sua Chiesa, facendo nuove tutte le cose, riuscendo cioè a far scaturire le novità dalla continuità, valorizzando l’intima e imprescindibile connessione tra memoria e profezia.
Bisogna crederci a questa potenza dello Spirito, a una manifestazione di exusia che interpella la fede dei credenti a partire dalla professione di quella forza e signoria che abita nel nome di Gesù, in Cristo crocifisso e risorto. In questa luce, quella dello Spirito e del suo primato, che risplendono nella parola di Dio e nei sacramenti che la Chiesa ci dona, sarà possibile discernere se le attuali questioni che emergono nel dibattito teologico ed ecclesiale, per esempio quella delle donne diacono, siano il riflesso delle attese delle Chiese e delle genti o siano realmente mozioni dello Spirito.
Sulle donne diacono
Recentemente papa Francesco ha voluto ribadire un criterio che da sempre accompagna il cammino della Chiesa: «Non si può andare oltre la Rivelazione». Lo ha detto all’UISG a proposito del diaconato delle donne, precisando che «se il Signore non ha voluto il ministero sacramentale per le donne, non va», anticipando così l’attuale orientamento dello studio che ha impegnato la commissione da lui stesso voluta per chiarire quest’importante aspetto.
La questione del diaconato femminile non è certamente nuova, e ha già prodotto, in questi ultimi decenni, svariati e interessanti studi e proposte, nonché, mi permetto di segnalare, la costante e sapiente attenzione della rivista Il diaconato in Italia, l’unica rivista a servizio del ministero dei diaconi, diretta da quasi trent’anni dal teologo biblico don Giuseppe Bellia.
Papa Francesco, nel dialogo con le superiori delle religiose richiamato sopra, ha fatto riferimento all’importanza di individuare un solido fondamento biblico e storico per poter procedere nella riflessione.
Proviamo quindi, brevemente, a indicare i nodi maggiori da sciogliere. Le due ricorrenze neotestamentarie che richiamano il diaconato delle donne, Rm 16,1-4 e 1Tm 3,8-12, invitano a una certa cautela. Di Febe, come spiega don Giuseppe Bellia è detto, «nostra sorella, diacono della Chiesa di Cencre», e cioè «è chiamata con formula maschile introdotta da un articolo femminile (he diakonos)», mentre «la famosa inserzione sulle “donne diacono” o delle “mogli dei diaconi” di 1Tm 3,11 ancora oggi affatica e divide esegeti e teologi».
La stessa vicenda dei sette, narrata in At 6, non appare per nulla configurata in modo ministeriale, e inoltre questi uomini non sono mai chiamati diaconi.
Sappiamo poi, dalla storia dei primi secoli cristiani, della netta distinzione di prassi e di approccio tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente: nessun valore sacramentale per il diaconato femminile nella prima, dove solo tardivamente, nel secolo VIII si fa menzione del diaconato femminile intendendolo però come un titolo onorifico da attribuire a donne consacrate o abbadesse; forse sì nella seconda, anche se bisogna pur dire che la testimonianza delle Costituzioni apostoliche, redatte in Siria verso il 380 d. C., è forse un unicum.
Fermandoci al testo delle Costituzioni apostoliche, quello cioè che più chiaramente fa riferimento alle donne diacono, «c’è una precisa distinzione tra cheirotonìa (imposizione delle mani) e cheirothesia (gesto di semplice benedizione: cf. VIII 16-23).
La cheirotonia, secondo le Costituzioni apostoliche, riguarderebbe le ordinazioni sia di episcopi, presbiteri e diaconi, sia anche di diaconesse, suddiaconi e lettori, anche se questi ultimi due erano conferiti fuori dal Santuario.
Permane dunque la questione: si tratta di un’ordinazione sacramentale con epiclesi o solo di una benedizione? Interrogativo ancora irrisolto, anche se limitato ad alcune Chiese della sola tradizione orientale, perché nella Chiesa latina occidentale il problema non si è mai posto.
A riguardo papa Francesco ha detto alle superiore generali delle religiose: «La forma di ordinazione non era la formula sacramentale, era per così dire […] come oggi è la benedizione abbaziale di una badessa, una benedizione speciale per il diaconato». Esattamente in linea con gli studi del teologo biblico Bellia.
Tuttavia la vera questione teologica, sottesa a tutto il discorso sul diaconato delle donne è quella del rapporto con il sacerdozio di Cristo. Realtà che ha animato per anni l’appassionato dibattito tra due dei più autorevoli studiosi in materia, p. Georges Martimort e p. Cipriano Vagaggini, monaco camaldolese. Per il primo le diaconesse sarebbero prive del carattere sacramentale, si tratterebbe solo di un titolo, per il secondo, in particolar modo nella tradizione bizantina, l’ordinazione delle diaconesse sarebbe connessa con quelle dei vescovi, presbiteri e diaconi.
Pietro Sorci, che ha compiuto degli studi sui testi liturgici e la preghiera di consacrazione delle donne diacono nelle Chiese di Siria e di quelle caldee e armene, ha individuato alcuni compiti delle donne diacono: «Compiere le unzioni nel battesimo delle donne (per una questione di decoro), sorvegliare le porte della chiesa, educare nella fede le donne».
Inoltre, confrontando i testi delle preghiere dell’ordinazione del diacono presenti nelle Costituzioni apostoliche, il frate minore, docente emerito di Liturgia presso la Facoltà teologica di Sicilia, ha osservato che nell’ordinazione del diacono di sesso maschile «si prega perché possa svolgere il ministero a lui affidato (leiturghesanta ten encheiristheisan diakonian) […] mentre nel caso della diaconessa si chiede soltanto che possa compiere degnamente l’opera a lei affidata (epitelein to encheiristhen aute ergon)». Le Costituzioni apostoliche vietano alle diaconesse di svolgere funzioni liturgiche (III 9, 1-2).
Una diaconia al femminile: la diaconia materna della Chiesa
Da questa breve analisi è evidente che il dibattito sul diaconato delle donne non può essere affrontato con superficialità o a forza di rilanci giornalistici. Non si tratta, infatti, di essere tifosi per una linea o un’altra, né di schierarsi tra i progressisti o i conservatori, né quindi di anteporre le proprie idee alla fede.
Ci si potrà invece domandare se ci sia una luce profetica al femminile di cui la Chiesa oggi potrebbe giovarsi, non rintracciandola tuttavia sul solo versante del punto di vista femminile, seppur decisivo e necessario, ma elevandola su un livello più teologico, anzi, intriso, se così possiamo esprimerci, da un inconfondibile profumo pasquale.
L’apostolo Paolo lo ha detto con chiarezza: «Non c’è più giudeo né greco, Non c'è giudeo né greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Come procedere dunque? Secondo la Scrittura, il primato è da assegnare all’essere in Cristo, all’essere trovati in lui, rimanere saldi in lui. È questa la chiamata, lasciarsi conformare all’immagine del Figlio unigenito di Dio, il nostro Signore Gesù Cristo, crocifisso e risorto (cf. Rm 8,28-30).
Prima c’è dunque il Cristo in noi e noi in lui, il nostro essere Chiesa che vive il primato della sua Parola e dell’Evangelo, e riconosce Cristo nell’eucaristia e lo serve nei fratelli. Diaconia, quest’ultima, che effettivamente, come fa osservare in un suo libro don Giuseppe Bellia, si caratterizza per un’indole tutta al femminile, una diaconia materna, che può dire tanto circa la dedizione, il servizio e la sequela di Cristo.
È forse questo il tratto di diaconia al femminile che risulta prioritario da riscoprire. «La diaconia della Chiesa – spiega Bellia – è associata all’opera di servizio della Chiesa/corpo di Cristo, della Chiesa/sposa, e perciò ha, o dovrebbe avere, un timbro e un’intensità al femminile, fatta di dedizione generosa e discreta, come ci mostra l’impegno instancabile e perseverante di molte donne nella vita della Chiesa, ancora in gran parte da riconoscere e rivalutare come esemplarità di servizio umile e fecondo» (G. Bellia, Servi di chi. Servi perché. Piccolo manuale della diaconia cristiana, 99).
E lo stesso Francesco, nell’Udienza del mercoledì, di ritorno dal viaggio apostolico in Bulgaria, ha voluto raccontare la sua commozione per aver osservato le suore della congregazione religiosa di Madre Teresa servire i poveri e gli ultimi con grande tenerezza e dedizione.
Non si tratta allora di clericalizzare le donne o di dividersi intorno alla querelle tra l’opzione di consacrazione religiosa o di ordinazione diaconale. È invece prioritario riscoprire e far conoscere quanto è donato alla Chiesa mediante il servizio generoso e coraggioso, perseverante e fecondo delle donne cristiane. L’esemplarità testimoniale di quante possono considerarsi autentiche discepole di Cristo può infatti indicarci la via che si deve percorrere per non separare il servizio al Cristo da una vera sequela (cf. Mt 7,21ss). Gesù stesso volle ricordare ai suoi: «Chi mi vuol servire mi segua» (Gv 12,26).
La potenza dello Spirito
E servizio e sequela sono realtà che rispondono al primato dello Spirito e dello spirituale, da non intendere affatto come disincarnato, nella vita della Chiesa. Nel recente discorso al Convegno della diocesi di Roma, il 9 maggio, Francesco ha detto che non bisogna rinunciare al kerygma, inventandosi «sinodi e contro sinodi», e ha poi aggiunto: «Ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo , lo butta e incomincia daccapo». È necessario infatti non ostacolare la manifestazione della potenza dello Spirito. A riguardo ci ammonisce ma soprattutto ci stupisce l’Apostolo:
Anch'io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l'eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,1-5).
C’è una forza intrinseca nell’annuncio e quindi nella diaconia della Parola. Ricordava don Giuseppe Dossetti: «La trasmissione della fede non ha bisogno né delle persuasioni, né dei discorsi, né degli argomenti dotti e neppure delle operazioni prodigiose, e manifesta, se mai, la potenza dello Spirito Santo che è in essa proprio, portando gli altri alla fede, e a una fede che si fonda non sulle argomentazioni e nemmeno sui prodigi, ma su questo contatto di Spirito. Dobbiamo crederlo!» (G. Dossetti, La Parola di Dio seme di vita incorruttibile, 71).
La manifestazione dello Spirito e della sua potenza, risulta quindi insieme irruenta e discreta, e così come accade per la Sapienza divina, essa geme e soffre, e anzi non riesce proprio a convivere con quelle situazioni di non autenticità. Da esse fugge e si discosta.
Il funzionalismo tra gnosticismo e pelagianesimo
Ha ragione dunque Francesco, quando dice che «siamo caduti nella dittatura del funzionalismo», che è «una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma» (Discorso alla diocesi di Roma, 9.5.2019).
Il funzionalismo si lega non poco con lo gnosticismo e il pelagianesimo che il papa ha indicato in Gaudete et exsultate come i nemici della santità. Si tratta di realtà che interpellano la distinzione tra visione ontologica e funzionale del ministero.
Vivere e pensare il proprio essere episcopo, presbitero o diacono all’insegna dell’estrinsecismo, cultualismo, formalismo, cerimonialismo, apparire, presenzialismo, clericalismo, ma anche accentuando il trionfalismo e giuridicismo, e quindi la mondanità, significa sbilanciarsi su una visione ontologica del ministero.
Questo tipo di «patologia spirituale» rientra sia nello gnosticismo che nel pelagianesimo, perché si manifesta sia come una devianza dell’idea che della volontà, per cui non c’è più profezia e la parola di Dio appare ingessata, e inoltre, come scrive anche Francesco in Gaudete et exsultate, si registra una lontananza dai problemi reali del mondo.
Ma questo vuol dire allora che una visione funzionale del ministero è quella più corretta? Vediamo prima quali sono le caratteristiche di quest’opzione: interventismo, attivismo, intraprendentismo, enfatizzazione sulle opere di misericordia e sulla ricerca della giustizia, sul servizio verso le marginalità, e quindi verso i poveri, gli ultimi, gli immigrati.
Che dire dunque? Certamente quest’opzione appare a prima vista più conforme al Vangelo e quindi più nobile. Tuttavia rischia di esaurirsi nell’esercizio di atti virtuosi che rimandavano a un’esemplarità individuale. C’è chiaramente un deficit di ecclesialità, di comunione.
Forse la scelta d’insistere su una Chiesa in permanente assetto sinodale può essere vista come una terapia all’individualismo. Ma se la sinodalità non si riscopre come un camminare alla luce della Parola verso l’eucaristia, non si rischia di oscurare il contributo della grazia sacramentale? In particolar modo di quella mediazione eucaristica che in ultima analisi è la sorgente di un’autentica diaconia? Da dove nascono infatti l’attenzione e la misericordia verso i poveri, gli ultimi e gli immigrati se non dall’eucaristia?
Uno sbilanciamento in senso funzionale può far dimenticare questo decisivo passaggio e far scivolare verso quel pelagianesimo che si denuncia. Sarà invece necessario riaffermare la centralità cristologica del Nome di Gesù, proclamato nella Parola, celebrato nell’eucaristia, servito nei fratelli.
Giovanni Chifari