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l'Ospite

Chi progetta il nostro futuro

Il tema della progettualità, in quanto gettare in avanti il nostro sguardo sul futuro, è tema fondamentale che non può essere sottostimato. Ci pare di poter affermare che la progettualità, in linea di massima, sia lasciata in mano a due settori dell’umano: la tecnocrazia e l’alta finanza.

Queste con grande lungimiranza sanno prevedere e influenzare il futuro delle nostre società. Tendono a indicare quali siano i fattori predominanti e in quale direzione bisogna muoversi. Creano il futuro e già lo gestiscono.

Se così stanno le cose, se il futuro non è più un dato acquisito una volta per tutte - come la fede cristiana ci indica - ma un divenire del quale non s'intravede la fine, in quanto tecnocrazia e finanza non la possiedono in se stesse, l’uomo perde coscienza del suo significato e del suo riferimento escatologico.

Quello che ci caratterizza è una perdita

Questa riflessione nasce dall’esperienza quotidiana, quando facciamo i conti con situazioni esistenziali di grande disagio come per esempio la depressione, la solitudine, l’angoscia, e anche la "cattiveria" che stando a quanto riporta il rapporto del Censis 2018 sulla situazione sociale dell’Italia è il sentimento che più caratterizza gli italiani.

Dal documento emerge un paese incattivito, più povero e più anziano, che trova il capro espiatorio dei propri guai negli immigrati. “Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”. Dunque, tutte queste situazioni individuali e sociali sono accumunate da sentimenti di perdita, noi diremmo perdita di futuro.

Quello che non riusciamo più a progettare è il futuro dell’uomo, a pensare le mete a cui far riferimento. Si è perso l’orizzonte. Ma un uomo senza meta è ancora un uomo? Ancora, ma di quale meta parliamo?

Su queste domande non solo dobbiamo interrogarci e riflettere, ma sarebbe opportuno trovare risposte.

Ma c’è di più e questo di più è dato dall’era digitale nella quale siamo immersi.

Viaggiatori o viandanti

Ci aiuta in questa analisi lo psichiatra Vittorino Andreoli. Nel suo libro La vita digitale, già del 2007, egli afferma che ormai abbiamo in tasca il mondo intero. In pochi centimetri di microchip sono racchiuse infinite possibilità di comunicare, informarsi, divertirsi, concludere un affare, e addirittura innamorarsi. È il cellulare: simbolo dell'era digitale, strumento che incarna e riassume il bisogno tutto umano di parlare, ascoltare, capire.

A tutti questo piccolo oggetto ha rivoluzionato la vita. In meglio o in peggio? Stiamo rischiando di chiuderci in un "autismo digitale"? Di volta in volta idolatrato come l'incarnazione stessa del progresso o al contrario additato come allegoria di una generazione incapace di relazionarsi con sé e con il prossimo, il cellulare è lo specchio di un'epoca, dà corpo alle contraddizioni di tutta la società.

Il celebre psichiatra osserva le conquiste dell'informatica e le opportunità illimitate di un mondo in cui le distanze non esistono più, ma al contempo ci invita a non perdere di vista la dimensione umana, a non sacrificare la nostra intelligenza a un idolo tecnologico, ma soprattutto a non affidare alle macchine il nostro potere di pensare e decidere, decidere del nostro futuro.

Non c’è dubbio, l’età della tecnica ha tagliato senza esitazione le radici che affondavano l’etica nel territorio stabile dell’eterno, e successivamente in quello meno stabile, anche se più responsabile, della previsione futura.

In questo modo i principi che sono alla base dell’etica occidentale, nelle sue diverse formulazioni della filosofia greca e della tradizione giudaico-cristiana, si sono espressi quando il potere dell’uomo sulla natura era praticamente nullo, mentre oggi ci troviamo a operare in un contesto dove la natura non è più l’immutabile, perché è manipolabile e in ogni suo aspetto modificabile dall’intervento umano.

A questo punto, direbbe Umberto Galimberti, all’uomo non resta che “il destino del ‘viandante’, il quale, a differenza del 'viaggiatore' che percorre la via per arrivare a una meta, aderisce di volta in volta ai paesaggi che incontra andando per via, e che per lui non sono luoghi di transito in attesa di quel luogo, Itaca, che fa di ogni terra una semplice tappa sulla via del ritorno”.

E così non c’è dubbio, le scienze umanistiche sanno analizzare dettagliatamente l’uomo, ma con fatica indicano la meta. Non sappiamo sollecitare più l’umano, forse perché l’umano si sta trasformando. Ce lo indica la filosofia del post-umano, che già ci induce a pensare al non umano o all’uomo ibrido interfacciato con le biotecnologie, invaso fin dentro al suo corpo (nanotecnologie). Siamo di fronte a nuove dimensioni oltre i confini naturali, radicali trasformazioni che modificano lo sviluppo dell’umanità futura.

Ora, ci pare opportuno tentare di rispondere alle due domande che ci siamo posti poco sopra e lo faremo partendo dalla seconda: quale meta?

Fra i tanti autori che potremmo citare per farci aiutare in questa risposta scegliamo Max Scheler. Nel suo saggio Crisi dei valori, pubblicato nel 1936, ci ricorda che “l'amore è solo il principio dinamico, immanente nell'universo, che mette in moto questo grande "agone" di tutte le cose per la divinità. … Non esiste più alcun "bene supremo" indipendente e al di là dell'atto e del movimento dell'amore! L'amore stesso è il più alto di tutti i beni!”. E san Giovanni dirà con grande afflato, nella sua prima lettera, che Dio è Amore. La meta di ogni uomo e di tutti gli uomini è così data: è l’Amore. In ogni suo atto, espressione, linguaggio, etica.

Se questo è vero, finanza, tecnica ed era digitale indicano all’uomo questa meta? Se non la indicano esse sono espressioni di un'immanenza storica e sociale, pur valida, ma non essenziale per l’uomo. Quello che costituisce l’uomo, che fa di un uomo quello che è, la sua essenza primigenia, è l’Amore.

L’umanità è di fronte a nuove e impellenti sollecitazioni antropologiche ed etiche, forse più profonde e strutturali rispetto ai millenni passati. Occorre un sobbalzo delle singole coscienze, insieme a una nuova politica internazionale, dove la lungimiranza e i valori eterni della solidarietà, della collaborazione, della pace e l’attenzione a chi ha più bisogno nelle “periferie esistenziali” siano di casa.

 

D. Pietro Romeo è vicario generale della diocesi di Locri-Gerace.

Foto di Вера Мошегова da Pixabay 

Commenti

  • 18/04/2019 M. Fuschetto

    In questo momento sto scrivendo con un quaderno digitale, digito per comunicare: con me, con voi. Sono già dall’altra parte. Il mondo fatto di storie raccontate davanti a un fuoco dalla parola che si fa suono e dal corpo che si fa teatro mimico è oggi reperto, traccia che si allunga sempre di più nel passato. Gli spazi di silenzio tra una parola e l’altra, una frase e l’altra, sono stati prima occupati dal rumore di fondo di televisioni sempre accese oggi dallo scampanellare continuo delle notifiche dei messaggi provenienti dai vari pianeti dei social.

    Se scrivessi a mano questa lettera chi poi la trascriverebbe per condividerla con altri? A quale indirizzo fisico e a chi dovrei inviarla? Esiste una redazione in senso fisico? Il problema non è semplice, oggi per stare nel mondo in un certo modo bisogna accettare questa protesi tecnologica. Ma il mondo non si esaurisce certo in questo tipo di relazioni. È infatti la ricchezza del mondo che ci viene incontro per offrirci delle soluzioni. Scopriamo, certo con fatica, che si può riaccogliere il silenzio, anche quello della mente che si affranca dall’immagine, spegnendo tutto, e nel silenzio crescere attraverso la meditazione, la preghiera, l’attenzione all’altro.

    Nell’incontro con l’altro sperimentare la bellezza di una conversazione che ritrova il gesto, l’espressione, il sorriso. Si riscopre la tecnica come strumento e non come luogo esaustivo, la tecnica come possibilità altra, la tecnica che aiuta e non sostituisce. Perché se nello sforzo che ci rende indipendenti ci accorgiamo quanto sia difficile la semplicità, che poi è anche l’amore per tutto, l’accorgerci del minimo che ci circonda, vediamo pure quanto essa sia sempre rivoluzionaria e resistente al tempo.

  • 10/04/2019 Bruno Marra

    Liberazione ed emarginazione. La società tecnologica è produttrice di oggetti che hanno una grande importanza nella storia e nella vita dell’uomo, oggi più che in passato.

    Non se ne può svalutare il significato nelle relazioni con le persone, poiché non si dà un rapporto se non mediante le cose. Tuttavia le cose possono creare – e spesso creano – dipendenza, condizionamenti, perfino schiavitù. Così i rapporti tra le persone finiscono con l’essere da un lato facilitati, dall’altro astratti, fragili e meno umani.

    Le cose e gli strumenti tecnologici rivelano un dramma: mentre l’uomo scopre la propria liberazione, si trova anche a essere imprevedibilmente emarginato. In realtà la discussione positiva instaurata tra la teologia e le scienze moderne ha indotto alcuni teologi – mediante l’identificazione tra la storia del mondo e la storia della salvezza – ad ammettere una legge evolutiva della storia.

    Il progresso a livello delle realtà mondane, le innovazioni tecniche, la crescita economica e altro vennero giudicati positivamente come dei contributi al perfezionamento della creazione di Dio. Naturalmente un tale modo di argomentare mette in questione il rapporto tra rivelazione ed escatologia, il quale subisce varie evoluzioni in relazione alla considerazione del mondo - complesso nelle sue articolazioni - che sembra essere composto di «uomo» e «di tutto il resto» in un orizzonte unificato in vista di una meta.

    Sulla spinta della concezione storico-salvifica è sorta nella teologia più recente la convinzione che non ci sia più nulla di nuovo da attendere dopo la rivelazione di Dio in Gesù Cristo; il termine «escatologico» in tal caso starebbe a indicare ciò che è definitivo e insuperabile nel rapporto tra Dio e l’uomo. L’escatologia è, in sostanza, («solo») la trasposizione della cristologia e dell’antropologia nella prospettiva della definitività e del compimento (K. Rahner) e tutto ciò potrebbe colmare il vuoto tra libertà ed emarginazione in una sintesi finalistica.

    In questo orizzonte l’analisi può essere più pertinente se viene approfondita mediante l’esame del rapporto «corpo-anima», che costituisce la quintessenza della realtà. Si può comprendere, allora, il senso della seguente affermazione: il corpo è l’«espressione» sostanziale dell’anima e in esso soltanto l’anima raggiunge la sua concreta realtà; non si dà un’attuazione di sé da parte dell’anima senza la mediazione della materia; quanto più grande è tale attuazione di sé, e quanto più quindi l’uomo diventa spirito, tanto più essa diventa (ed egli è) corpo.

    Tutto ciò significa pure che il corpo è il mezzo di ogni comunicazione e che, viceversa, l’autoattuazione dell’anima cresce nella misura in cui l’uomo vive con altri uomini corporei in un mondo corporeo e di cose. A questa impostazione di pensiero corrisponde l’odierna teologia del corpo. Il farsi uomo del Logos si chiama, nel campo dell’antropologia biblica, «farsi carne» (Gv 1,14), «incarnazione»; Gesù Cristo è uomo integro; egli effettua la redenzione nel suo corpo, che viene sacrificato e la sintesi di Tertulliano: «caro cardo salutis» è quanto mai illuminane e perspicace.

    Con queste considerazioni si può tentare di superare la dicotomia liberazione-emarginazione e quindi il limite imposto dalle «cose» al rapporto tra gli uomini.            

  • 10/04/2019 Valeria Rossi

    La società moderna è caratterizzata dal ruolo massiccio della tecnologia che, di scoperta in scoperta, di decennio in decennio, ha cambiato ogni aspetto della vita dell'uomo, divenendo di fatto il faro del progresso sociale. Eppure non basta il progresso tecnologico a spiegare gli attuali mutamenti della società.

    Se, da un lato, lo sviluppo tecnologico è alla base dei meccanismi sociali odierni, dall'altro bisogna considerare il ruolo della moderna visione psicologica dell'individuo. Dai tempi dell'interpretazione dei sogni di Freud, la psicologia è diventata la prima chiave di interpretazione di una società repressiva e di un individuo legato dai lacci delle maschere sociali, privo di autonomia, libertà e felicità.

    Strappati i vincoli dell'oppressione sociale, la psicologia ha liberato l'individuo ma a quale prezzo? Dell'oppressione al relativismo etico, l'uomo, divenuto misura di tutte le cose, trova in sé stesso la propria realizzazione e si chiude alla dimensione della progettualità di sé stesso e del dialogo con gli altri. L'illusione che la libertà portasse naturalmente alla realizzazione di sé stessi e degli altri si è rivelata impossibile: non si può crescere solo offrendo e ricevendo benessere materiale, senza educazione, né progettualità, in una parola Amore.

    Si è perdo così il senso del dono infinito che il Creatore ha fatto alla creatura, il desiderio di realizzare profondamente sé stessi nella libertà che abbiamo ricevuto e non attraverso l'egoistica auroreferenzialita. Diventa ciò che sei nel profondo di te stesso, in interiore homini, come affermavano i padri della Chiesa, oggi significa solo realizzare il proprio benessere egoistico e la propria personale illusoria ricerca della felicità, a base di superficialità e materialismo, a prezzo dell'autentica ricerca di sé. È la psicobanalisi, come spiega bene il comico Maurizio Crozza.

  • 10/04/2019 Enzo Granese

    Non si può pensare al futuro senza considerare una cooperazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, pur se è indispensabile cercare di comprendere la maniera in cui questa realtà possa coesistere.

    E' necessario avere un piano, un modello che sappiano orientare il progresso tecnologico verso orizzonti di sviluppo. Necessita un modello che sappia sia valorizzare i benefici di queste nuove tecnologie, sia rendere presenti i valori fondanti. Per far sì che questo sia possibile è importante pianificare organismi che garantiscano la governance delle tecnologie legate alle intelligenze artificiali.

    Solo realizzando dei luoghi istituzionali dove queste forme di dialogo etico e di regolamentazione delle biotecnologie possano avvenire, si potrà affrontare una reale ricerca oggettiva del bene. Se le riflessioni e il confronto per un discernimento etico trovano una struttura che abbia realmente il potere di gestire le tecnologie legate alle intelligenze artificiali si può pensare a gestire la complessità del mondo tecnologico con tutte le problematiche connesse, rimettendo al centro del vivere sociale, come un fine, la persona.

    Allo stesso tempo occorre specificare che lo sviluppo necessita di una dimensione etica non come un elemento giustapposto nella gestione e indirizzo dell'innovazione tecnologica, ma riconoscere che questa porta una serie di domande di senso che si collocano nel cuore di ogni autentico sviluppo. È evidente, per la natura stessa dell'innovazione tecnologica, che una governance sarà efficace solo se si configura come momento di dialogo e confronto tra le diverse competenze fornite dalle scienze empiriche, dalla filosofia, dalla teologia, dalle analisi morali-teologiche e da ogni altra forma di sapere.

    Sac. Enzo Granese. Arcidiocesi di Sant'Angelo dei Lomb. - Conza - Nusco - Bisaccia

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