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Documenti, 19/2019, 01/11/2019, pag. 577

L’Amazzonia a Roma

Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la Regione panamazzonica – Discorsi di apertura e chiusura

Francesco; Card. Cláudio Hummes

La Chiesa in uscita in Amazzonia e i suoi nuovi cammini; il volto amazzonico della Chiesa: inculturazione e interculturalità in ambito missionario-ecclesiale; la ministerialità nella Chiesa in Amazzonia: presbiterato, diaconato, ministeri, ruolo della donna; l’azione della Chiesa nel prendersi cura della casa comune: l’ascolto della Terra e dei poveri; ecologia integrale ambientale, economica, sociale e culturale; la Chiesa amazzonica nella realtà urbana; la questione dell’acqua. Il card. Cláudio Hummes, relatore generale, li ha chiamati «nuclei generativi», ma si tratta del vero e proprio ordine del giorno dell’Assemblea speciale per l’Amazzonia del Sinodo dei vescovi, apertasi a Roma il 6 ottobre 2019 sul tema «Nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale». Prendendo la parola all’inizio della Congregazione generale del 7 ottobre, prima del card. Hummes, papa Francesco ha sintetizzato tale ordine del giorno parlando di quattro dimensioni del Sinodo per l’Amazzonia: «La dimensione pastorale, la dimensione culturale, la dimensione sociale e la dimensione ecologica». Ma di queste, ha sottolineato, l’essenziale è la prima: «Noi cerchiamo di affrontare la realtà dell’Amazzonia con questo cuore pastorale… perché quello che ci preme è l’annuncio del Signore».

L’Osservatore romano 7-8.10.2019, 12; Bollettino della Sala stampa della Santa Sede n. 0782, 7.10.2019; www.vatican.va. Per il discorso conclusivo del papa nostra traduzione dallo spagnolo. Titolazione redazionale.

Cuore pastorale
Papa Francesco

Sorelle e fratelli, buongiorno!

     Benvenuti a tutti e grazie per il vostro lavoro di preparazione: tutti hanno lavorato tanto, da quel momento di Puerto Maldonado fino a oggi. Grazie tante.

     Il Sinodo... parlerò in castigliano, è meglio...

     Il Sinodo per l’Amazzonia, possiamo dire che ha quattro dimensioni: la dimensione pastorale, la dimensione culturale, la dimensione sociale e la dimensione ecologica. La prima, la dimensione pastorale, è quella essenziale, quella che comprende tutto. Noi l’affrontiamo con cuore cristiano e guardiamo alla realtà dell’Amazzonia con occhi di discepolo per comprenderla e interpretarla con occhi di discepolo, perché non esistono ermeneutiche neutre, ermeneutiche asettiche, sono sempre condizionate da un’opzione previa, la nostra opzione previa è quella di discepoli. E conosco anche quella di missionari, perché l’amore che lo Spirito Santo ha posto in noi ci spinge all’annuncio di Gesù Cristo; un annuncio – lo sappiamo tutti – che non va confuso con il proselitismo. Noi cerchiamo di affrontare la realtà dell’Amazzonia con questo cuore pastorale, con occhi di discepoli e di missionari, perché quello che ci preme è l’annuncio del Signore.

     E inoltre ci avviciniamo ai popoli amazzonici in punta di piedi, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del buon vivere nel senso etimologico della parola, non nel senso sociale che spesso attribuiamo loro, perché i popoli hanno una propria identità, tutti i popoli hanno una loro saggezza, una consapevolezza di sé, i popoli hanno un modo di sentire, un modo di vedere la realtà, una storia, un’ermeneutica e tendono a essere protagonisti della loro storia con queste cose, con queste qualità. E noi ci avviciniamo estranei a colonizzazioni ideologiche che distruggono o riducono le specificità dei popoli. Le colonizzazioni ideologiche oggi sono molto diffuse. E ci avviciniamo senza ansia imprenditoriale di proporre loro programmi preconfezionati, di «disciplinare» i popoli amazzonici, di disciplinare la loro storia, la loro cultura; ossia quest’ansia di «addomesticare» i popoli originari. Quando la Chiesa si è dimenticata di questo, cioè di come deve avvicinarsi a un popolo, non si è inculturata; è arrivata addirittura a disprezzare certi popoli. E quanti fallimenti di cui oggi ci rammarichiamo. Pensiamo a De Nobile in India, a Ricci in Cina e tanti altri. Il centralismo «omogeneizzante» e «omogeneizzatore» non ha lasciato emergere l’autenticità della cultura dei popoli.

Civiltà e barbarie?

     Le ideologie sono un’arma pericolosa, abbiamo sempre la tendenza ad aggrapparci a un’ideologia per interpretare un popolo. Le ideologie sono riduttive e ci portano all’esagerazione nella nostra pretesa di comprendere intellettualmente, ma senza accettare, comprendere senza ammirare, comprendere senza assimilare. E allora si coglie la realtà in categorie, e le più comuni sono le categorie degli «-ismi». Allora, quando dobbiamo avvicinarci alla realtà di qualche popolo originario, parliamo di indigenismi, e quando vogliamo dare loro qualche via di uscita per una vita migliore, non glielo chiediamo, parliamo di sviluppismo. Questi «-ismi» riformulano la vita a partire dal laboratorio illuminato e illuminista.

     Sono slogan che si stanno radicando e programmano l’avvicinamento ai popoli originari. Nel nostro paese, uno slogan, «civiltà e barbarie» è servito a dividere, ad annientare, e ha raggiunto il suo apice verso la fine degli anni Ottanta, ad annientare la maggior parte dei popoli originari, perché erano «barbarie» e la «civiltà» proveniva da un’altra parte. È il disprezzo dei popoli, e prendo l’esperienza della mia terra: questo «civiltà e barbarie» che è servito ad annientare popoli, continua ancora oggi nella mia patria, con parole offensive, e allora si parla di civiltà di secondo livello, quelli che vengono dalla barbarie; e oggi sono i «bolitas, los paraguayanos, los paraguas, los cabecitas negras», sempre questo allontanarci dalla realtà di un popolo qualificandolo e mettendo distanza. Questa è l’esperienza del mio paese.

     E poi il disprezzo. Ieri mi è dispiaciuto molto sentire qui dentro un commento beffardo su quell’uomo pio che portava le offerte con le piume in testa. Ditemi: che differenza c’è tra il portare piume in testa e il «tricorno» che usano alcuni officiali dei nostri dicasteri? Allora corriamo il rischio di proporre misure semplicemente pragmatiche, quando al contrario ci vengono richieste una contemplazione dei popoli, una capacità di ammirazione, che facciano pensare in modo paradigmatico. Se qualcuno viene con intenzioni pragmatiche, che reciti l’«io peccatore», che si converta e apra il cuore verso una prospettiva paradigmatica che nasce dalla realtà dei popoli.

     Non siamo venuti qui per inventare programmi di sviluppo sociale o di custodia di culture, di tipo museale, o di azioni pastorali con lo stesso stile non contemplativo con cui si stanno portando avanti le azioni di segno opposto: deforestazione, uniformazione, sfruttamento. Fanno anche programmi che non rispettano la poesia – mi permetto di dirlo –, la realtà dei popoli che è sovrana. Dobbiamo anche guardarci dalla mondanità nel modo di esigere punti di vista, cambiamenti nell’organizzazione. La mondanità si infiltra sempre e ci fa allontanare dalla poesia dei popoli.

Non scacciamo lo Spirito Santo

     Siamo venuti per contemplare, per comprendere, per servire i popoli. E lo facciamo percorrendo un cammino sinodale, lo facciamo in Sinodo, non in tavole rotonde, non in conferenze e ulteriori discussioni: lo facciamo in Sinodo, perché un Sinodo non è un parlamento, non è un parlatorio, non è dimostrare chi ha più potere sui media e chi ha più potere nella rete, per imporre qualsiasi idea o qualsiasi piano. Questo configurerebbe una Chiesa congregazionalista, se intendiamo cercare per mezzo di sondaggi chi ha la maggioranza. O una Chiesa sensazionalista così lontana, così distante dalla nostra santa madre la Chiesa cattolica, o come amava dire sant’Ignazio: «la nostra santa madre la Chiesa gerarchica». Sinodo è camminare insieme sotto l’ispirazione e la guida dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’attore principale del Sinodo. Per favore non lo scacciamo dalla sala. Sono state fatte consultazioni, si è discusso nelle conferenze episcopali, nel Consiglio pre-sinodale, è stato elaborato l’Instrumentum laboris che, come sapete, è un testo-martire, destinato a essere distrutto, perché è punto di partenza per quello che lo Spirito farà in noi. E ora camminiamo sotto la guida dello Spirito Santo. Ora dobbiamo consentire allo Spirito Santo di esprimersi in questa assemblea, di esprimersi tra noi, di esprimersi con noi, attraverso di noi, di esprimersi «nonostante» noi, nonostante le nostre resistenze, che è normale che ci siano, perché la vita del cristiano è così.

     Quindi, quale sarà il nostro lavoro, qui, per assicurare che questa presenza dello Spirito Santo sia feconda? Prima di tutto, pregare. Fratelli e sorelle, vi chiedo di pregare, molto. Riflettere, dialogare, ascoltare con umiltà, sapendo che io non so tutto. E parlare con coraggio, con parresìa, anche se mi vergognerò a farlo, dire quello che sento, discernere, e tutto questo qui dentro, custodendo la fraternità che deve esistere qui dentro, per favorire questo atteggiamento di riflessione, preghiera, discernimento, di ascoltare con umiltà e parlare con coraggio. Dopo quattro interventi avremo quattro minuti di silenzio. Qualcuno ha detto: «È pericoloso, padre, perché si addormenteranno». Nell’esperienza del Sinodo sui giovani, dove abbiamo fatto la stessa cosa, è accaduto invece il contrario: tendevano ad addormentarsi durante gli interventi – almeno, durante alcuni – e si risvegliavano durante il silenzio.

     Infine, stare nel Sinodo significa incoraggiarsi a entrare in un processo. Non è occupare uno spazio all’interno della sala. Entrare in un processo. E i processi ecclesiali hanno una necessità: devono essere protetti, curati come un bambino, accompagnati all’inizio, curati con delicatezza. Hanno bisogno del calore della comunità; hanno bisogno del calore della madre Chiesa. È così che un processo ecclesiale cresce. Per questo l’atteggiamento di rispetto, di curare il clima fraterno, l’aria di intimità è importante. Si tratta di non riferire tutto, così come viene, fuori. Ma non si tratta, rispetto a coloro che dobbiamo informare, di un segreto più proprio delle logge che della comunità ecclesiale; ma di delicatezza e di prudenza nella comunicazione che faremo con l’esterno. E questa necessità di comunicare fuori a tanta gente che vuole sapere, a tanti nostri fratelli, giornalisti, che hanno la vocazione di servire perché si sappia, e per aiutarli in questo sono previsti servizi stampa, briefing ecc.

     Ma un processo come quello di un Sinodo si può rovinare un po’ se io, quando esco dalla sala, dico quello che penso, dico la mia. E allora ci sarà quella caratteristica che si è presentata in alcuni sinodi: del «Sinodo di dentro» e del «Sinodo di fuori». Il Sinodo di dentro che segue un cammino di madre Chiesa, di attenzione ai processi, e il Sinodo di fuori che, per un’informazione data con leggerezza, data con imprudenza, porta chi ha il dovere di informare a equivoci. Quindi, grazie per quello che state facendo, grazie perché pregate gli uni per gli altri e coraggio. E, per favore, non perdiamo il senso dell’umorismo. Grazie.

 

     Aula del Sinodo, 7 ottobre 2019.

 

Francesco

Relazione
introduttiva
Card. Cláudio Hummes

     Il tema del Sinodo che stiamo per iniziare è: «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale». Un tema che riprende le grandi linee pastorali proprie di papa Francesco. Delineare nuovi cammini. Fin dall’inizio del suo ministero papale, Francesco ha sottolineato la necessità della Chiesa di camminare. Essa non può rimanere ferma in casa, occupandosi solo di se stessa, racchiusa dentro mura protette. E ancor meno guardando indietro con la nostalgia dei tempi passati. Essa ha bisogno di spalancare le porte, di abbattere le mura che la circondano e di costruire ponti, di uscire e mettersi in cammino nella storia, in questi tempi di cambiamenti epocali, camminando sempre al fianco di tutti, soprattutto di chi vive nelle periferie dell’umanità. Chiesa «in uscita». Perché uscire? Per accendere luci e riscaldare cuori che aiutino la gente, le comunità, i paesi e l’umanità intera a trovare il senso della vita e della storia. Queste luci sono soprattutto l’annuncio della persona di Gesù Cristo, morto e risorto, e del suo Regno, così come la pratica della misericordia, della carità e della solidarietà soprattutto verso i poveri, i sofferenti, i dimenticati e gli emarginati del mondo di oggi, i migranti e gli indigeni.

     Il camminare rende la Chiesa fedele alla vera tradizione. Non il tradizionalismo che rimane legato al passato, ma la vera tradizione che è la storia viva della Chiesa, in cui ogni generazione, accogliendo ciò che le è stato dato dalle generazioni precedenti, come la comprensione e l’esperienza della fede in Gesù Cristo, arricchisce la tradizione stessa con la propria esperienza e comprensione della fede in Gesù Cristo nei tempi attuali.

     Le luci: l’annuncio di Gesù Cristo e la pratica instancabile della misericordia nella tradizione viva della Chiesa indicano il cammino da seguire in un procedere inclusivo che invita, accoglie e incoraggia tutti, senza eccezioni, a camminare insieme, verso il futuro, come amici e fratelli, rispettando le nostre differenze.

     «Nuovi cammini». Nuovi. Non aver paura del nuovo. Nell’omelia di Pentecoste del 2013, papa Francesco sosteneva: «La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti (...) abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità –, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di lui». Nell’Evangelii gaudium il papa mostra Gesù Cristo come «l’eterna novità» (n. 11; EV 29/2115). Lui è sempre il nuovo. Lui è sempre lo stesso, il nuovo, «ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8) il nuovo. Per questo la Chiesa prega: «Manda il tuo Spirito e sarà una nuova creazione, e rinnoverai la faccia della terra». Allora, non temiamo il nuovo. Non temiamo Cristo, il nuovo. Questo Sinodo cerca nuovi cammini.

Coraggiosi e intrepidi

     Nel suo discorso ai vescovi brasiliani, durante la Giornata mondiale della gioventù, nel 2013, a Rio de Janeiro, parlando di Amazzonia come «un test decisivo, un banco di prova per la Chiesa e per la società brasiliana», il papa propone di «rilanciare [lì, in Amazzonia] l’opera della Chiesa», «di consolidare il volto amazzonico della Chiesa» e «di formare un clero autoctono», aggiungendo: «In questo, per favore, vi chiedo di essere coraggiosi, di essere intrepidi». Questo ci rimanda necessariamente alla storia della Chiesa in quella regione. Fin dai primordi della colonizzazione dell’Amazzonia, anche lì ci sono stati i missionari cattolici, sia per dare assistenza ai colonizzatori, sia per evangelizzare, all’epoca, gli indigeni. Inizia così la missione evangelizzatrice della Chiesa nella regione.

     Tra luci e ombre – sicuramente più luci che ombre – le generazioni successive di missionari e missionarie, soprattutto di ordini e congregazioni religiose, ma anche preti diocesani e laici – in particolare le donne – hanno cercato di portare Gesù Cristo ai popoli locali e di costruire comunità cattoliche. È giusto ricordare, riconoscere ed esaltare, in questo Sinodo, la storia eroica – e spesso di martirio – di tutti i missionari e missionarie del passato e anche di quelli e quelle di oggi nella Panamazzonia. Accanto ai missionari, ci sono sempre stati numerosi leader laici e indigeni che hanno dato una testimonianza eroica e che spesso sono stati – e lo sono tuttora – uccisi.

     Non si può dimenticare, inoltre, che la Chiesa missionaria dell’Amazzonia si è distinta in tutta la sua storia – e ancora oggi si distingue – per i grandi e fondamentali servizi alla popolazione locale in ambito scolastico, sanitario, nella lotta contro la povertà e contro la violazione dei diritti umani. D’altro canto, la storia della Chiesa in Panamazzonia mostra che c’è sempre stata grande carenza di risorse materiali e di missionari per un pieno sviluppo delle comunità, in particolare l’assenza quasi totale dell’eucaristia e di altri sacramenti essenziali per la vita cristiana quotidiana.

     Il volto amazzonico della Chiesa locale deve essere consolidato, come ha detto papa Francesco nel già citato discorso ai vescovi brasiliani, e anche il suo volto indigeno nelle comunità indigene, come ha esortato il papa a Puerto Maldonado (Discorso all’incontro con i popoli dell’Amazzonia, 19.1.2018). Fin dall’annuncio del Sinodo, il papa ha messo in chiaro che il rapporto della Chiesa con i popoli indigeni e con la foresta amazzonica è uno dei suoi temi centrali. Infatti, annunciando il Sinodo e spiegando le sue finalità, Francesco ha detto: «Scopo principale di questa convocazione è individuare nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta» (Angelus, 15.10.2017).

     E a Puerto Maldonado ha detto ai popoli indigeni: «Ho voluto venire a visitarvi e ascoltarvi, per stare insieme nel cuore della Chiesa, unirci alle vostre sfide e con voi riaffermare un’opzione convinta per la difesa della vita, per la difesa della terra e per la difesa delle culture». Nella fase dell’ascolto sinodale, i popoli indigeni hanno manifestato in molti modi che vogliono il sostegno della Chiesa nella difesa e nella tutela dei loro diritti, nella costruzione del loro futuro. E chiedono alla Chiesa di essere un’alleata costante. Di fatto, l’umanità ha un grande debito verso le popolazioni indigene nei diversi continenti della terra e anche in Amazzonia. Ai popoli indigeni deve essere restituito e garantito il diritto di essere protagonisti della loro storia, soggetti e non oggetti dello spirito e dell’azione del colonialismo di chiunque. Le loro culture, le lingue, le storie, le identità, le spiritualità costituiscono ricchezze dell’umanità e devono essere rispettate e preservate e incluse nella cultura mondiale.

L’esigenza dell’inculturazione

     La missione della Chiesa oggi in Amazzonia è il nodo centrale del Sinodo. È un Sinodo della Chiesa per la Chiesa. Non una Chiesa chiusa su se stessa, ma integrata nella storia e nella realtà del territorio – in questo caso, dell’Amazzonia – attenta al grido di aiuto e alle aspirazioni della popolazione e della «casa comune» [il creato], aperta al dialogo, soprattutto al dialogo interreligioso e interculturale, accogliente e desiderosa di condividere un cammino sinodale con le altre Chiese, religioni, scienza, governi, istituzioni, popoli, comunità e persone, rispettando le differenze, con l’intento di difendere e promuovere la vita delle popolazioni dell’area, soprattutto dei popoli originari e preservare la biodiversità del territorio nella regione amazzonica.

     Una Chiesa aggiornata, «semper reformanda», secondo l’Evangelii gaudium, ossia una Chiesa in uscita, missionaria, con l’annuncio esplicito di Gesù Cristo, dialogante e accogliente, che cammina accanto alla gente e alle comunità, misericordiosa, povera, per i poveri e con i poveri, e dunque con un’opzione preferenziale per i poveri, inculturata, interculturale e sempre più sinodale. Una Chiesa di dimensione mariana, alimentata con la devozione per Maria santissima, secondo molti titoli locali, soprattutto quello di Maria de Nazaré, la cui festa a Belém do Pará riunisce ogni anno milioni di devoti e di pellegrini.

     L’inculturazione della fede cristiana nelle diverse culture dei popoli si impone, come ha detto san Giovanni Paolo II: «Questa [l’inculturazione] costituisce un’esigenza che ha segnato tutto il cammino storico [della Chiesa], ma oggi è particolarmente acuta e urgente» (Redemptoris missio, n. 52; EV 12/651). Assieme all’inculturazione, l’evangelizzazione dei popoli amazzonici richiede anche particolare attenzione all’interculturalità, perché è lì che le culture sono molte e diversificate, sebbene mantengano alcune radici comuni. Il compito dell’inculturazione e dell’interculturalità si svolge soprattutto nella liturgia, nel dialogo interreligioso ed ecumenico, nella pietà popolare, nella catechesi, nella convivenza dialogale quotidiana, con le popolazioni autoctone, nelle opere sociali e caritatevoli, nella vita consacrata, nella pastorale urbana.

     Tuttavia, non si può dimenticare che oggi, e già da molto tempo, la Chiesa in Amazzonia soffre per la mancanza di risorse materiali necessarie per la sua missione e che ha la necessità di aumentare il suo potenziale di comunicazione (radio e TV).

La cura della casa comune

     In questo ampio contesto, Chiesa ed ecologia integrale sul territorio sono collegate. È una Chiesa consapevole che la sua missione religiosa, in modo coerente con la sua fede in Gesù Cristo, include inevitabilmente «la cura della casa comune». Questo legame dimostra anche che il grido della terra e il grido dei poveri della regione è lo stesso grido. La vita in Amazzonia forse non è mai stata tanto minacciata, come oggi, «dalla distruzione e dallo sfruttamento ambientale, dalla sistematica violazione dei diritti umani fondamentali della popolazione amazzonica. In particolare, la violazione dei diritti dei popoli originari, come il diritto al territorio, all’autodeterminazione, alla delimitazione dei territori, alla consultazione e al consenso previo» (Instrumentum laboris, n. 14; Regno-doc. 15,2019,451).

     Secondo il processo di ascolto sinodale della popolazione, la minaccia alla vita in Amazzonia deriva da interessi economici e politici dei settori dominanti della società odierna, in particolare delle imprese che estraggono in modo predatorio e irresponsabile [legalmente o illegalmente] le ricchezze del sottosuolo e alterano la biodiversità, spesso in connivenza o con la permissività dei governi locali e nazionali e a volte anche con il consenso di qualche autorità indigena. La consultazione sinodale registra anche che le comunità ritengono che la vita in Amazzonia sia minacciata soprattutto da: a) la criminalizzazione e l’assassinio di leader e difensori del territorio; b) l’appropriazione e la privatizzazione di beni naturali, come l’acqua stessa; c) le concessioni a imprese di disboscamento legali e l’ingresso di imprese di disboscamento illegali; d) caccia e pesca predatorie, soprattutto nei fiumi; e) megaprogetti: idroelettrici, concessioni forestali, disboscamento per produrre monocolture, strade e ferrovie, progetti minerari e petroliferi; f) inquinamento provocato dall’intera industria estrattiva che crea problemi e malattie, in particolare ai bambini/e ai giovani; g) il narcotraffico; h) i conseguenti problemi sociali associati a tali minacce come l’alcolismo, la violenza contro la donna, il lavoro sessuale, il traffico di esseri umani, la perdita della loro cultura originaria e della loro identità (lingua, pratiche spirituali e costumi), e l’intera condizione di povertà a cui sono condannati i popoli dell’Amazzonia» (Instrumentum laboris, n. 15; Regno-doc. 15,2019,452).

     L’ecologia integrale ci palesa che tutto è collegato, gli esseri umani e la natura. Tutti gli esseri viventi del pianeta sono figli della terra. Il corpo umano è fatto con il «fango della terra», su cui Dio ha «soffiato» lo spirito di vita, come dice la Bibbia (cf. Gen 2,7). Di conseguenza, tutto ciò che viene fatto ai danni della terra, danneggia gli esseri umani e tutti gli altri esseri viventi della terra. Questo dimostra che non si può affrontare separatamente ecologia, economia, cultura etc. In Laudato si’ si sostiene che devono essere pensate congiuntamente: un’ecologia ambientale, economica, sociale e culturale (cf. c. IV).

     Anche il Figlio di Dio si è incarnato e il suo corpo umano viene dalla terra. In questo corpo, Gesù è morto per noi sulla croce per vincere il male e la morte, è risuscitato tra i morti ed è seduto alla destra di Dio Padre nella gloria eterna e immortale. Dice l’apostolo Paolo: «È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, (…) sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,19-20). In Laudato si’ leggiamo: «Questo ci proietta alla fine dei tempi, quando il Figlio consegnerà al Padre tutte le cose perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Così le creature di questo mondo non ci appaiono più come semplice realtà naturale, perché il Risorto le avvolge misteriosamente e le orienta a un destino di pienezza» (Laudato si’, n. 100; EV 31/680). Così, Dio stesso si è collegato definitivamente a tutto il suo creato. Questo mistero si compie nel sacramento dell’eucaristia. 

Se la Chiesa vive dell’eucaristia…

     Il Sinodo si svolge in un contesto di grave e urgente crisi climatica ed ecologica che coinvolge tutto il nostro pianeta. Il riscaldamento globale del pianeta per l’effetto serra ha generato uno squilibrio climatico senza precedenti, grave e impellente, come mostrato dalla Laudato si’ e dalla COP 21 di Parigi, dove è stato sottoscritto, praticamente da tutti i paesi del mondo, l’Accordo climatico in verità fino a oggi quasi inattuato, malgrado l’urgenza. Al tempo stesso, sul pianeta avviene una devastazione, una depredazione e un degrado galoppante delle risorse della terra, tutto promosso da un paradigma tecnocratico globalizzato, predatorio e devastante, denunciato dalla Laudato si’. La terra non ce la fa più.

     L’enorme realtà urbana dell’Amazzonia, in parte conseguenza delle migrazioni interne, e la presenza della Chiesa nelle città è un altro tema centrale di questo Sinodo, perché anche la Chiesa, nella città, deve sviluppare e consolidare il suo volto amazzonico. Essa non può essere la riproduzione della Chiesa urbana di altre regioni. La sua missione in Amazzonia include la cura e la difesa della foresta amazzonica e dei suoi popoli: indigeni, caboclos, ribeirinhos, quilombolas, poveri di ogni specie, piccoli agricoltori, pescatori, seringueiros, spaccatrici di cocco e altri, secondo la regione. Questa missione sicuramente non sarà un peso, ma una gioia come solo il Vangelo sa offrire.

     Oggi le migrazioni sono un fenomeno mondiale, segnano i tempi attuali della Panamazzonia, tra le migrazioni, in passato quella degli haitiani, oggi quella dei venezuelani, ma soprattutto degli stessi indigeni e di altre porzioni di poveri dell’interno della regione. La Chiesa ha fatto un grande sforzo di accoglienza. Ma bisogna porre l’accento sulla migrazione degli indigeni nelle città. Migliaia e migliaia. Hanno bisogno di un’attenzione efficace e misericordiosa per non soccombere culturalmente e umanamente in città, davanti alla miseria, all’abbandono, al disprezzo e al rifiuto, con un disperante vuoto interiore. «L’indigeno in città è un migrante, un essere umano senza terra e un sopravvissuto a una storica battaglia per la delimitazione della sua terra, con la sua identità culturale in crisi» (Instrumentum laboris, n. 132; Regno-doc. 15,2019,475). Per molte ragioni è obbligato all’invisibilità. Il grido spesso silenzioso, ma non meno forte e pungente, degli indigeni urbani deve essere ascoltato. La Chiesa in città affronta tutta la problematica sociale e religiosa delle sue periferie povere e dell’evangelizzazione di tutti i segmenti della popolazione urbana.

     Un’altra questione è la carenza di presbiteri al servizio delle comunità locali sul territorio, con la conseguente mancanza dell’eucaristia, almeno domenicale, e di altri sacramenti. Mancano anche preti incaricati, questo significa una pastorale fatta di visite sporadiche anziché di un’adeguata pastorale con presenza quotidiana. Ebbene, la Chiesa vive dell’eucaristia e l’eucaristia edifica la Chiesa (san Giovanni Paolo II). La partecipazione nella celebrazione dell’eucaristia, almeno la domenica, è fondamentale per lo sviluppo progressivo e pieno delle comunità cristiane e per
la vera esperienza della parola di Dio nella vita delle persone. Sarà necessario definire nuovi cammini per il futuro. Nella fase di ascolto, le comunità indigene hanno chiesto che, pur confermando il grande valore del carisma del celibato nella Chiesa, di fronte all’impellente necessità della maggior parte delle comunità cattoliche in Amazzonia, si apra la strada all’ordinazione sacerdotale degli uomini sposati residenti nelle comunità. Al tempo stesso, di fronte al gran numero di donne che oggi dirigono le comunità in Amazzonia, si riconosca questo servizio e si cerchi di consolidarlo con un ministero adatto alle donne dirigenti di comunità.

Alcuni nuclei generativi

     Un altro importante capitolo è la questione dell’acqua, «perché è indispensabile per la vita umana e per sostenere gli ecosistemi terrestri e acquatici» (Laudato si’, n. 28; EV 31/608). La scarsità di acqua potabile e sicura è una minaccia crescente in tutto il pianeta. «La questione non è marginale, bensì fondamentale e molto urgente (...). Ogni persona ha diritto all’accesso all’acqua potabile e sicura; è un diritto umano essenziale e una delle questioni cruciali nel mondo attuale», ha affermato papa Francesco (Discorso ai partecipanti al IV Workshop organizzato dalla Pontificia accademia delle scienze, 24.2.2017).

     L’Amazzonia è una delle più voluminose riserve di acqua dolce nel pianeta. «Il bacino del Rio delle Amazzoni e le foreste tropicali che lo circondano nutrono i suoli e regolano, attraverso il riciclo dell’umidità, i cicli dell’acqua, dell’energia e del carbonio a livello planetario. Solo il Rio delle Amazzoni getta nell’Oceano (...) il 15% di acqua dolce totale del pianeta. Ecco perché l’Amazzonia è essenziale per la distribuzione delle piogge in altre regioni remote del Sud America e contribuisce ai grandi movimenti dell’aria in tutto il pianeta. Nutre anche la natura, la vita e le culture di migliaia di comunità indigene, contadini, afro-discendenti, popolazioni che vivono sulle rive dei fiumi e delle città (...). La sovrabbondanza naturale di acqua, calore e umidità fa sì che gli ecosistemi dell’Amazzonia ospitino dal 10 al 15% circa della biodiversità terrestre» (Instrumentum laboris, n. 9; Regno-doc. 15,2019,450s).

     Qui subentra anche la funzione della foresta e dei popoli indigeni. Di fatto, in Amazzonia la foresta si prende cura dell’acqua e l’acqua si prende cura della foresta e insieme producono la biodiversità, e i popoli indigeni sono i millenari guardiani di questo sistema. Per questo anche la Chiesa si sente chiamata a prendersi cura dell’acqua della «casa comune», minacciata in Amazzonia principalmente dal riscaldamento climatico, dalla deforestazione e dalla contaminazione causata dalle miniere e dai pesticidi.

     Per concludere, propongo, per la dinamica dei lavori di questa assemblea sinodale, alcuni nuclei generativi: a) la Chiesa in uscita in Amazzonia e i suoi nuovi cammini; b) il volto amazzonico della Chiesa: inculturazione e interculturalità in ambito missionario-ecclesiale; c) la ministerialità nella Chiesa in Amazzonia: presbiterato, diaconato, ministeri, il ruolo della donna; d) l’azione della Chiesa nel prendersi cura della casa comune: l’ascolto della Terra e dei poveri; ecologia integrale ambientale, economica, sociale e culturale; e) la Chiesa amazzonica nella realtà urbana; f) la questione dell’acqua; g) altri.

     Chiudo invitando tutti a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo in queste giornate di Sinodo. Lasciatevi avvolgere dal mantello della Madre di Dio, Regina dell’Amazzonia. Non lasciamoci sopraffare dall’autoreferenzialità, ma dalla misericordia davanti al grido dei poveri e della terra. Sarà necessario pregare molto, meditare e discernere una pratica concreta di comunione ecclesiale e di spirito sinodale. Questo Sinodo è come un tavolo che Dio ha imbandito per i suoi poveri, e ci chiede di servire a quel tavolo.

 

     Aula del Sinodo, 7 ottobre 2019.

 

Cláudio card. Hummes,

arcivescovo emerito di São Paulo,

relatore generale

Discorso conclusivo
Francesco

     Innanzitutto voglio ringraziare tutti voi che avete dato questa testimonianza di lavoro, ascolto, ricerca, tentando di mettere in pratica questo spirito sinodale che forse stiamo imparando a strutturare, pur senza padroneggiarlo ancora. Ma siamo su una strada, siamo su una buona strada. E stiamo capendo sempre di più che cosa significa camminare insieme, stiamo capendo che cosa significa discernere, che cosa significa ascoltare, che cosa significa integrare la ricca tradizione della Chiesa nei momenti congiunturali.

     Alcuni pensano che la tradizione sia un museo di cose vecchie. Mi piace ripetere un’espressione di Gustav Mahler: «La tradizione è la salvaguardia del futuro e non la custodia delle ceneri». È come la radice da cui viene la linfa che fa crescere l’albero in modo che dia frutto. Prendere e far andare avanti, ecco come i primi padri hanno concepito la tradizione. Ricevere e camminare nella stessa direzione, con quella triplice dimensione così bella di Vincenzo di Lérins già nel V secolo [«Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato» (cf. Primo commonitorio, 23: PL 50, 667-668)]. Grazie per tutto questo.

     Uno dei temi che sono stati votati a maggioranza – tre hanno avuto la maggioranza per il prossimo Sinodo – è quello della sinodalità. Non so se sarà scelto o no, non ho ancora deciso, sto riflettendo e pensando, ma posso sicuramente dire che abbiamo camminato molto e che dobbiamo camminare ancora di più. Grazie per essermi accanto.

     L’esortazione post-sinodale non è obbligatoria; la cosa più probabile – anzi, scusate, la più semplice – sarebbe dire: «Bene, qui c’è il documento, vedete voi». In ogni caso una parola del papa su ciò che si è vissuto nel Sinodo può essere opportuna. Vorrei farlo prima della fine dell’anno, in modo che non passi molto tempo, tutto dipenderà da quanto tempo riesco ad avere per riflettere.

Quattro dimensioni, quattro diagnosi

     Abbiamo parlato di quattro dimensioni. In primo luogo la dimensione culturale: ci abbiamo lavorato, abbiamo parlato dell’inculturazione, della valorizzazione della cultura, con molta forza, e sono contento di ciò che è stato detto al riguardo, che è dentro la tradizione della Chiesa. L’inculturazione: Puebla aveva già aperto quella porta, per ricordare il luogo più recente.

     In secondo luogo la dimensione ecologica: voglio rendere omaggio qui a uno dei pionieri di questa coscienza all’interno della Chiesa, il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli. È stato uno dei primi ad aprire la strada a questa consapevolezza. E dopo di lui tanti lo hanno seguito, con la stessa inquietudine e con sempre maggiore accelerazione, dal gruppo di Parigi e attraverso i successivi incontri.

     Da lì è nata la Laudato si’, con un’ispirazione alla quale hanno collaborato tante persone, scienziati, teologi, esperti di pastorale. Ebbene, questa consapevolezza ecologica oggi va avanti e denuncia un percorso di sfruttamento compulsivo, di distruzione di cui l’Amazzonia è uno dei punti salienti. È un simbolo, direi. In questa dimensione ecologica è in gioco il futuro, non è vero? Nelle manifestazioni dei giovani, sia nel movimento di Greta sia in altri, i ragazzi portavano poster con scritto: «Il futuro è nostro, non decidete il nostro futuro». «È nostro». La consapevolezza del pericolo ecologico è qui già presente, ovviamente non solo in Amazzonia, ma anche in altri luoghi: il Congo per esempio, o altri come il Chaco nella mia terra, l’area dell’«Impenetrabile», piccola ma in qualche modo a noi non ignota.

     Accanto alla dimensione ecologica c’è la dimensione sociale, che non riguarda più solo ciò che viene sfruttato selvaggiamente, il creato, la creazione, ma le persone. E in Amazzonia compaiono tutti i tipi di ingiustizie: distruzione delle persone, sfruttamento a tutti i livelli e distruzione dell’identità culturale. Ricordo di essere arrivato a Puerto Maldonado – penso di averlo già detto, non ricordo – e c’era un cartello all’aeroporto, con l’immagine di una bambina molto bella e la scritta «Difenditi dalla tratta». Un avvertimento per il turista che arriva. E questo insieme alla distruzione dell’identità culturale, un altro fenomeno che avete sottolineato molto bene nel documento, come in tutto questo viene distrutta l’identità culturale.

     E la quarta dimensione, che è quella che include tutto – e direi la principale – è la pastorale, la dimensione pastorale. La proclamazione del Vangelo è urgente, è urgente! Ma che sia capito, assimilato, compreso da quelle culture. E si è parlato di laici, di sacerdoti, di diaconi permanenti, di religiosi e religiose, su cui contare in questo campo. Si è parlato di ciò che fanno e di rafforzarli.

     Si è parlato di nuovi ministeri, ispirati alla Ministeria quaedam di Paolo VI, di essere creativi in questo. Creatività nei nuovi ministeri e vedere fino a dove si può arrivare. Si è parlato di seminari indigeni, con grande forza. Ringrazio per il coraggio con cui ne ha parlato il card. O’Malley, perché ha messo il dito nella piaga su un tema che è una vera ingiustizia sociale: che non sia consentito agli aborigeni il percorso del seminario e del sacerdozio. Creatività in tutto questo ambito dei nuovi ministeri.

     Recepisco la richiesta di riconvocare la Commissione o magari di ricostituirla con nuovi membri per continuare a studiare com’era il diaconato permanente nella Chiesa primitiva. Sapete di essere giunti a un accordo che però non è chiaro. Ho consegnato queste conclusioni alle religiose, all’Unione internazionale delle superiore generali, che mi avevano chiesto di fare la ricerca, le ho date a loro, e ora ciascuno dei teologi sta facendo ricerca. Intendo rifarlo con la Congregazione per la dottrina della fede, invitando nuove persone in questa Commissione e raccogliendo il guanto che hanno gettato: «Che siano ascoltate». Raccolgo la sfida [applauso].

Riforme e riorganizzazioni

     Sono emerse alcune cose che devono essere riformate: la Chiesa deve essere sempre riformata. La formazione sacerdotale nel paese. In alcuni paesi, ho sentito dire, in un gruppo o in un intervento che ho sentito, che si nota una certa mancanza di zelo apostolico nel clero dell’area non amazzonica rispetto a quella amazzonica. Con il card. Filoni abbiamo difficoltà, quando una congregazione religiosa lascia un vicariato, a trovare sacerdoti di quel paese che prendano il vicariato: «No, non sono adatte». Bene, questo deve essere riformato. La formazione sacerdotale nel paese è universale, e ha la responsabilità di farsi carico di tutti i problemi dei paesi geografici, diciamo, di quella conferenza episcopale. E riformare questo aspetto: che non esista la mancanza di zelo.

     Ugualmente alcuni – ne ricordo due – hanno sottolineato il problema che forse non si vede tale mancanza di zelo, o meglio non c’è, nei giovani religiosi, e questa è una cosa da tenere in con-siderazione. I giovani religiosi hanno una grande vocazione e devono essere formati allo zelo apostolico per andare nelle frontiere. Sarebbe bello se ci fosse un’esperienza di almeno un anno nelle regioni vicine nel piano di formazione religiosa. Lo stesso, e questo è un suggerimento che ho ricevuto per iscritto, ma ora lo dico: che nel servizio diplomatico della Santa Sede, nel curriculum del servizio diplomatico, i giovani sacerdoti trascorrano almeno un anno in missione, ma non facendo il tirocinio in nunziatura come si fa ed è molto utile, bensì semplicemente al servizio di un vescovo in un luogo di missione. Questo sarà studiato ma è anche una riforma da considerare.

     E la ridistribuzione del clero nello stesso paese. Si diceva, riferendosi a una situazione particolare, che c’è un gran numero di sacerdoti di quel paese nel primo mondo, vedi Stati Uniti, Europa ecc., mentre non ve ne sono da inviare nell’area amazzonica di quello stesso paese. Questo dovrà essere valutato insieme. È vero che a volte – e questo è successo anche a me come vescovo – viene da te un prete che hai mandato a studiare, si è innamorato del posto e ci rimane, con tutto quello che il primo mondo ti può offrire, e non vuole tornare in diocesi. E naturalmente un vescovo per salvare la vocazione cede. Ma su quel punto bisogna stare molto attenti e non fare favoritismi.

     Sono grato ai veri sacerdoti fidei donum che vengono in Europa dall’Africa, dall’Asia e dall’America, ma a quelli che sono fidei donum, che restituiscono quel fidei donum che l’Europa ha dato loro. Ma quelli che vengono e rimangono sono un pericolo. È un po’ triste, mi ha detto un vescovo italiano, che ne ha tre così, che non celebrano messa nei paesi di montagna se prima non arriva l’offerta. Questo è reale, qui e ora. Quindi stiamo attenti e abbiamo coraggio nel realizzare quelle riforme di ridistribuzione del clero nello stesso paese.

     E un punto della parte pastorale è stata la donna. Certo la donna: ciò che viene detto nel documento «non è abbastanza», che cos’è la donna, giusto? Che cos’è la donna nella trasmissione della fede, nel preservare la cultura. Vorrei solo sottolineare questo: che non abbiamo ancora capito cosa significhi la donna nella Chiesa ed è per questo che ci limitiamo solo alla parte funzionale, che è importante, che deve essere nei consigli ... o in tutto ciò che si è detto, sì. Ma il ruolo delle donne nella Chiesa va ben oltre la funzionalità. Ed è su questo che bisogna continuare a lavorare. Molto di più.

     Si è poi parlato di riorganizzazione, vi si arriva alla fine del documento. Un organismo di servizio, dopo la REPAM, creare una sorta di ..., che la REPAM abbia più consistenza, una specie di volto amazzonico. Non so, per progredire nell’organizzazione, per progredire nelle semi-conferenze episcopali, vale a dire: c’è una conferenza episcopale del paese, ma c’è anche una semi-conferenza episcopale parziale di un’area, si fa ovunque, qui in Italia c’è la Conferenza episcopale lombarda ... Cioè, ci sono paesi che hanno conferenze episcopali settoriali, perché nei paesi della regione amazzonica non organizzare piccole conferenze episcopali amazzoniche, che appartengono al generale, ma fanno il loro lavoro? E organizzando quella struttura tipo REPAM, tipo CELAM amazzonico. Aprendo, aprendo.

Le «cosine» e il quadro generale

     Si è parlato di una riforma rituale, aprirsi ai riti, questo rientra nelle competenze della Congregazione per il culto divino, e si può fare molto bene seguendo i criteri, facendo le proposte necessarie che l’inculturazione richiede. Ma sempre con ampiezza, sempre oltre. Non solo organizzazione rituale, ma tutto ciò che il Signore ispira. Delle 23 Chiese con rito proprio che sono state menzionate nel documento, credo che almeno 18, se non 19, sono Chiese sui iuris iniziate in piccolo, elaborando tradizioni sotto la guida del Signore; non dobbiamo avere paura delle organizzazioni che proteggono una vita speciale. Sempre con l’aiuto della santa madre Chiesa, madre di tutti, che ci conduce in questo cammino per rimanere insieme. Non abbiate paura.

     E vi è stato un contributo anche per quanto riguarda l’organizzazione della curia romana. Mi sembra che dobbiamo farlo e parlerò del come con il card. Turkson. Aprire una sezione amazzonica all’interno del Dicastero per la promozione umana integrale. Quindi, dato che non ha lavoro, gliene do di più.

     Oltre a ringraziare voi voglio ringraziare tutti coloro che hanno lavorato dall’esterno, specialmente fuori da questa Aula. I segretari che hanno aiutato, la segreteria nascosta, i media, la Commissione per l’informazione, coloro che hanno preparato gli incontri e le informazioni. I grandi nascosti che fanno sì che una cosa vada avanti. La famosa regia, che ci ha tanto aiutato. Anche a loro un grazie.

     Includo la Presidenza della Segreteria generale nel ringraziamento e ringrazio i media, che immaginavo sarebbero stati qui per ascoltare il voto, poiché il voto è pubblico, per quello che hanno fatto. Grazie per questo favore che ci fate diffondendo il Sinodo. Vi chiedo un favore: che nella divulgazione che farete del documento finale vi soffermiate soprattutto sulle diagnosi, che è la parte più consistente, quella in cui il Sinodo si è espresso al meglio: la diagnosi culturale, diagnosi sociale, quella pastorale ed ecologica. Perché la società deve occuparsene.

     Il pericolo può essere che possiate soffermarvi – è un pericolo, non dico che lo facciate, ma la società lo richiede – a volte su che cosa hanno deciso su questa questione disciplinare; che cosa hanno deciso su un’altra; se ha vinto questo partito e ha perso quello. Sulle piccole cose disciplinari che hanno il loro significato, ma che non farebbero il bene che questo Sinodo deve fare. Che la società assuma la diagnosi che abbiamo fatto in tutte e quattro le dimensioni. Vorrei chiedere ai media di farlo.

     C’è sempre un gruppo di cristiani d’«élite» a cui piace intromettersi, come se fosse universale, in questo tipo di diagnosi ristrette, o in questo tipo di risoluzioni disciplinari più intra-ecclesiastiche, non dico intra-ecclesiali ma intra-ecclesiastiche, e dire che ha vinto questa o quella parte. No, vinciamo tutti con le diagnosi che abbiamo fatto, e da cui ci addentriamo nelle questioni pastorali e intra-ecclesiastiche. Non vi chiudete in questo.

     Pensando oggi a queste «élite» cattoliche, talvolta cristiane ma soprattutto cattoliche, che guardano alle «cosine» e trascurano l’insieme, mi sono ricordato di una frase di Péguy e sono andato a cercarla. Provo a tradurla bene, penso che possa aiutarci per descrivere questi gruppi che cercano la «cosina» e dimenticano la «cosa». «Poiché non hanno il coraggio di stare con il mondo, credono di stare con Dio. Poiché non hanno il coraggio d’impegnarsi nelle scelte di vita dell’uomo, credono di lottare per Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio». Mi ha molto illuminato per cercare di non cadere prigionieri di questi gruppi selettivi che del Sinodo vorranno vedere che cosa si è deciso su questo punto intra-ecclesiastico o su quest’altro, e negheranno il corpo del Sinodo che sono le diagnosi che abbiamo fatto nelle quattro dimensioni.

     Grazie di cuore, perdonatemi se sono stato petulante e pregate per me, per favore. Grazie [applausi].

     Il documento viene pubblicato con il risultato della votazione, ovvero per ciascun numero, il risultato della votazione.

Il grido di speranza
Omelia conclusiva di Francesco

     La parola di Dio oggi ci aiuta a pregare attraverso tre personaggi: nella parabola di Gesù pregano il fariseo e il pubblicano, nella prima lettura si parla della preghiera del povero.

     1. La preghiera del fariseo comincia così: «O Dio, ti ringrazio». È un ottimo inizio, perché la preghiera migliore è quella di gratitudine, è quella di lode. Ma subito vediamo il motivo per cui ringrazia: «Perché non sono come gli altri uomini» (Lc 18,11). E spiega pure il motivo: digiuna due volte la settimana, mentre allora era d’obbligo una volta all’anno; paga la decima su tutto quello che ha, mentre era prescritta solo sui prodotti più importanti (cf. Dt 14,22). Insomma, si vanta perché adempie al meglio precetti particolari. Però dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo (cf. Mt 22,36-40). Traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore. Ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla, come dice san Paolo (cf. 1Cor 13). E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma si sente in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io. E tanti gruppi «illustri», «cristiani cattolici», vanno su questa strada.

     E oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza: per lui, cioè, non ha prezzo, non ha valore. Si ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, «i rimanenti, i restanti» («loipoi», Lc 18,11). Sono cioè, «rimanenze», sono scarti da cui prendere le distanze. Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia! Quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti. Oppure, ritenendoli arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni. Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi – lo abbiamo visto nel Sinodo quando parlavamo dello sfruttamento del creato, della gente, degli abitanti dell’Amazzonia, della tratta delle persone, del commercio delle persone!

     Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia. La religione dell’io continua, ipocrita con i suoi riti e le sue «preghiere» – tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani –, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesù di guarirci dal parlare male e dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno: sono cose sgradite a Dio. E provvidenzialmente, oggi ci accompagnano in questa messa non solo gli indigeni dell’Amazzonia: anche i più poveri delle società sviluppate, i fratelli e sorelle ammalati della Comunità dell’Arche. Sono con noi, in prima fila.

     2.Passiamo all’altra preghiera. La preghiera del pubblicano ci aiuta invece a capire che cosa è gradito a Dio. Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica – i pubblicani erano ricchi e guadagnavano pure iniquamente, a spese dei loro connazionali – ma sente una povertà di vita, perché nel peccato non si vive mai bene. Quell’uomo che sfrutta gli altri si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in piedi (cf. v. 11), il pubblicano sta a distanza e «non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo», perché crede che il Cielo c’è ed è grande, mentre lui si sente piccolo. E «si batte il petto» (cf. v. 13), perché nel petto c’è il cuore.

     La sua preghiera nasce proprio dal cuore, è trasparente: mette davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio – è Dio che mi guarda quando prego –, senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Tante volte ci fanno ridere i pentimenti pieni di giustificazioni. Più che un pentimento sembra un’auto-canonizzazione. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità – queste sono le giustificazioni –, da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari padri e fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze.

     Oggi, guardando al pubblicano, riscopriamo da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero. Invece la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa. È tanto importante questo atteggiamento di partenza che Gesù ce lo mostra con un confronto paradossale, mettendo insieme nella parabola la persona più pia e devota del tempo, il fariseo, e il peccatore pubblico per eccellenza, il pubblicano. E il giudizio si capovolge: chi è bravo ma presuntuoso fallisce; chi è disastroso ma umile viene esaltato da Dio.

     Se ci guardiamo dentro con sincerità, vediamo in noi tutti e due, il pubblicano e il fariseo. Siamo un po’ pubblicani, perché peccatori, e un po’ farisei, perché presuntuosi, capaci di giustificare noi stessi, campioni nel giustificarci ad arte! Con gli altri spesso funziona, ma con Dio no. Con Dio il trucco non funziona. Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio.

     3. Arriviamo così alla preghiera del povero, della prima lettura. Essa, dice il Siracide, «attraversa le nubi» (35,21). Mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio. Il senso della fede del popolo di Dio ha visto nei poveri «i portinai del Cielo»: quel sensus fidei che mancava nella dichiarazione [del fariseo]. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo sé stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana.

     In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio. Egli è Padre e, dice ancora il Siracide, «ascolta la preghiera dell’oppresso» (v. 16). E quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi.

 

 Francesco

Tipo Documento
Tema Sinodo dei vescovi Francesco Pastorale - Liturgia - Catechesi Ecologia Ministeri - Vita religiosa
Area AMERICA LATINA AMERICHE
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