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Vita senza fine

XXVIII domenica del tempo ordinario

Sap 7,7-11; Sal 90 (89); Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

          Un’inclusione, alcune contrapposizioni e un gioco di sguardi: il testo che abbiamo di fronte (Mc 10,17-30) è costruito con non poca abilità.

          L’inclusione riguarda il termine «vita eterna», che apre (v. 17) e chiude (v. 30) il nostro brano. Si tratta di una vita senza fine (zoe aionios), che confina col divino; è il mondo a venire, come conferma il v. 30. Il vero interesse del redattore marciano è questa vita senza fine nel mondo che deve venire e dove entrano i giusti.

          Il ricco, abituato ad avere e a procurarsi tutto, chiede: «Che cosa farò per avere in eredità la vita eterna?», in parte contraddicendosi, perché un’eredità si riceve per lo più senza merito e senza aver fatto cose per guadagnarsela. Ma pare convinto di dover agire per procurarsela.

          All’epoca le eredità erano soprattutto possedimenti fondiari, con o senza immobili. Corrispondevano a luoghi oltre che a beni. A ogni modo la domanda è genuina, proprio perché quel mondo senza fine che a lui interessa tocca ai giusti, quindi qualcosa ci sarà che si può fare.

          Le contrapposizioni sono sette (vv. 18, 20, 21, 22, 24 due volte, 26) e sono contrassegnate da una congiunzione avversativa del tipo «ma» o «invece», in greco de. Tre volte sono riferite a Gesù, due volte al ricco, due volte ai discepoli. La scena è dunque movimentata e il dialogo serrato.

          Il ricco vuole sapere che cosa deve fare, e Gesù gli risponde con una domanda che non è interlocutoria, ma riguarda la sua stessa condizione di ricco desideroso di un oltre. Il ricco ha riconosciuto infatti che Gesù è un giusto, e come tale può e deve sapere come avere la vita del mondo a venire. Il maestro, con la sua risposta, rimanda direttamente al Primo Testamento, in cui si ribadisce che il Dio d’Israele è buono. Anzi, come attributo salvifico ṭob – «buono» – è solo di Dio, e perciò non intende riferirlo a sé. Piuttosto, dato che si allude al Dio del Sinai, il ricco viene rimandato ai comandamenti, a dire che non si esce dal patto con Israele e dalla Torah.

          Com’è noto il termine «comandamento» non appartiene al lessico della tradizione esodica, dove si usa «parole» (dǝbarim) o «precetti» (miṣwot). Questi, come ogni dettato biblico, sono soggetti a interpretazione. Anzi ogni comandamento scritto era ed è vissuto nel contesto di un’interpretazione. Da qui l’appellativo «maestro» (didaskale, vv. 17.20). Perciò ci si può chiedere: quali comandamenti? Quelli solo scritti o interpretati da chi?

          Gesù cita solo comandamenti scritti (vv. 18-19), con l’unica aggiunta di «non frodare» (me apostereses, v. 19), senza interpretazioni, e il ricco, che non deve essere giovane ma è semplicemente «uno» (eis, v. 17), dice di averli osservati fin da giovane con – questa sì – un’affermazione interlocutoria. Fa pensare che si aspetti qualcosa di più, almeno a livello interpretativo.

          La risposta del maestro è dapprima uno sguardo profondo (emblepo è «guardare intensamente», «scrutare in profondità»), e poi un’indicazione molto complessa per un ricco dell’epoca: dovrebbe vendere tutto, cioè i terreni con gli immobili annessi, che magari non sono solo suoi, ma fanno parte di un patrimonio familiare su cui non è libero di decidere. Capisce di essere di fronte non solo a un’alienazione di beni, ma anche alla rescissione di legami e affetti familiari, di tradizioni, di un passato oltre che del suo presente.

          Gesù non introduce nella sua risposta i poveri perché preoccupato per la loro indigenza, propone invece una sorta di scambio di beni tra terra e cieli, questo mondo e quello a venire (v. 21), per la via della giustizia che gli è stata chiesta.

          Restano due sguardi: uno circolare sui discepoli (periblepsamenos, v. 23), che evidentemente sono lì attorno, e uno in profondità ancora verso di loro, analogo a quello verso il ricco (emblepsas, v. 27). Con questo sguardo Gesù apre per loro una sorta di via alla vita presente e a quella futura (vv. 29-30), mentre il lasciare tutto (emeis aphekamen panta, v. 28), su cui Pietro si mostra sicuro, ci dice indirettamente che quello sguardo è forse accompagnato dall’amore, come nel caso del ricco, o che così doveva essere stato anche al momento della loro chiamata al discepolato.

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