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«Vide e ne ebbe compassione»

Il Vangelo di oggi ci presenta una tra le più note parabole, quella conosciuta come la «parabola del buon samaritano». 

 

XV domenica del tempo ordinario

Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

Il Vangelo di oggi ci presenta una tra le più note parabole, quella conosciuta come la «parabola del buon samaritano». Vediamo innanzitutto il contesto geografico.

Siamo sulla strada che da Gerusalemme scende verso Gerico con un percorso di circa 29 chilometri e un dislivello di circa 1.000 metri, dato che Gerico si trova a 250 metri sotto il livello del mare mentre Gerusalemme sta a 800 metri s.l.m.

Parlare poi di strada è un eufemismo, dato che in realtà si tratta di un sentiero tortuoso tra le colline del deserto di Giuda, pieno quindi di curve e anfratti che favoriscono la possibilità di nascondersi o di tendere agguati. È in questi luoghi che, per esempio, Davide riuscì a sottrarsi dall’inseguimento del figlio Assalonne (2Sam 16,5), e che il re Sedecia cercò di nascondersi dai Babilonesi (2Re 25,5).

Nulla di strano, anzi, quasi normale amministrazione che tale strada fosse frequentata da briganti pronti ad assalire qualche passante di turno picchiandolo, derubandolo e lasciandolo poi mezzo morto sul ciglio della strada; è così che inizia infatti il testo della parabola: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto».

A questo punto il racconto prosegue con la descrizione di tre passanti – un sacerdote, un levita e un samaritano – e della loro reazione. È bene notare, però, che la connotazione – sacerdote, levita o samaritano – non è di per sé una caratteristica che comporti un maggiore o minore vincolo morale. Si era «sacerdoti» o «leviti» o «samaritani» per nascita, non per vocazione, anche se certamente ognuna di queste persone, in quanto giudeo o samaritano, era legata all’osservanza della propria fede e quindi a un comportamento morale conforme.

Inoltre, dato che tutti e tre «scendevano da Gerusalemme» non è neanche possibile giustificare l’astenersi dal toccare il ferito da parte del sacerdote o del levita per questioni di purità legate al servizio nel Tempio.

Tale sottolineatura è importante proprio perché mette sullo stesso piano i tre «passanti» a partire proprio dalla loro umanità e dall’essere, tutti e tre, osservanti della Torah. Sappiamo che il Pentateuco samaritano differisce in parte da quello ebraico, ma non così da non ritrovare in esso lo stesso identico versetto di Lv 19,18 che è menzionato nel testo evangelico: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».

Ciò che fa la differenza tra loro non è quindi il loro «luogo» di nascita, regione o tribù che sia, e neanche la loro fede ma, potremmo dire, il loro «sguardo»: «Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione». Tutti e tre vedono la stessa cosa: un uomo accasciato per terra mezzo morto, ma il «riflesso» di tale visione è differente.

I primi due «vedono» e passano oltre, forse anche per paura che i briganti siano ancora nei paraggi e magari possano anche loro essere attaccati. Risulta comunque che il loro vedere è «estraneo», «distante», in loro non c’è capacità di «compassione», cioè capacità di entrare in relazione con l’altro, di «mettersi nei suoi panni», di fare «causa comune» con la persona che hanno di fronte. Il terzo, invece, «vede» non solo un uomo ferito e derubato, ma in qualche modo «si vede» in quell’uomo, forse pensa che quanto gli è capitato sarebbe potuto capitare anche a lui, e tutto questo lo porta ad avere compassione, a «mettersi nei suoi panni», a prendersi cura di lui. Facendo per questo sconosciuto ciò che avrebbe desiderato fosse fatto a lui, applicando cioè proprio quanto è scritto nel Lv 19,18 sia – come già detto – secondo la Torah (Pentateuco) in circolazione nel primo secolo, sia secondo il Pentateuco samaritano: «Ama il prossimo per te stesso», secondo una traduzione più letterale del testo.

Il criterio dunque per discernere che cosa sia giusto fare nei confronti di qualsiasi persona che si trovi nel bisogno è, come termina il Vangelo, «farsi prossimo» dell’altro: «“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”».

Avere «compassione», dunque, non significa essere più generosi o più sensibili di altri, ma significa avere cura dell’umanità, della fragilità, della debolezza e, soprattutto, del valore che la vita ha per noi stessi; la dignità del nostro essere uomini e donne passa attraverso la nostra «compassione», la nostra capacità di «farci prossimo», di domandarci «come vorrei essere trattato/o, aiutato/a se mi trovassi in quella stessa situazione?».

 

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