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Un'adesione dinamica

XXXI domenica del tempo ordinario

Dt 6,2-6; Sal 18 (17); Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

          Quando una domanda nasce da un’esigenza autentica e non polemica, determina anche il colore e il tono della risposta. Lo scriba non vuole mettere in difficoltà Gesù: ha pur già visto che sa rispondere bene anche a questioni insidiose (Mc 12,28), gli pone perciò un’effettiva domanda.

          Nella selva delle interpretazioni si può stabilire una gerarchia dei comandamenti? Egli chiede infatti quale sia «il primo di tutti» (prote panton, v. 28) – il «primo» in ordine di importanza, il più cogente, quello a cui tutti gli altri sono come appesi e dal quale discendono.

          La risposta di Gesù non è che un’abile sintesi delle due tavole sinaitiche che regolano i rapporti divino-umani e i rapporti sociali come verifica dei primi.

          Il primo comandamento, da cui tutti gli altri dipendono, è il rifiuto dell’idolatria, perché a ben guardare non c’è peccato che a essa non faccia riferimento. I desideri smodati e illeciti, i furti e le menzogne, gli adulteri e gli omicidi non sono che porre altro davanti alla sua faccia, un oggetto visibile di fronte all’Invisibile (cf. Es 20,3 ’aHerim á·¾al-panaya; LXX plen emou «eccetto me»). Tale stravolgimento dell’ordine delle cose sconvolge appunto i rapporti sociali.

          Accostare la formula della professione di fede – e quindi la fede – in quanto primo comandamento che tale è e rimane, all’amore del prossimo, usando in entrambi i casi il verbo agapao (vv. 30.31 agapeseis), equivale a evocare le dieci parole nella loro totalità. Il resto – direbbe rabbi Aqiba – non è che commento e non c’è altro da fare che applicarsi a studiare e a vivere quello che si è studiato.

          Lo scriba è soddisfatto della risposta (v. 32), e lo è a sua volta Gesù, che replica con una litote «non sei lontano dal regno di Dio» (ou makran ei apo tes basileias tou theou, v. 34). «Non lontano», come mancasse ancora qualcosa, benché poco.

          Torna alla mente l’episodio del ricco (Mc 10,17ss), in cui Gesù aveva risposto in chiave positiva recitando parte della seconda tavola e aggiungendo che a colui che lo interpellava mancava «una sola cosa» (en se usterei, Mc 10,21).

          Di partenza il ricco e lo scriba sono due persone desiderose entrambe di accedere al Regno, e percepiscono che quel che vivono non può bastare: al primo Gesù indica una via di sequela, che si rivela semplice solo in apparenza, il secondo pare essere molto più vicino. Sono due modelli di quasi-discepolato in cui l’adesione dinamica alla Torah del secondo sembra essere sulla soglia del Regno.

          Lo scriba sta continuando a studiare: non chiede semplicemente che cosa debba fare, perché questo lo capirà da solo, di volta in volta, quando chi abbia autorità e competenza gli abbia confermato quale sia la gerarchia interna alla Torah, se una gerarchia c’è. Egli infatti già conosce la risposta e il dialogo con Gesù si risolve in un reciproco riconoscimento di saggezza dal tono amicale.

          Mantenendo fermo dunque che il primo posto spetta alla fede e alla professione di fede, eventualmente fino al martirio, le altre decisioni si chiariranno lungo il percorso.

          Del resto in Makkot 23b-24a si legge una progressiva riduzione dei precetti da 613 a 11 nel Sal 15, a 6 in Is 33,15-16, a 3 in Mi 6,8, a 2 nuovamente in Is 56,1, a uno in Am 5,4 o piuttosto in Ab 2,4: «Il giusto vive attraverso la sua fede». Se però si ripercorre la serie dei testi sopracitati, si vede che la fede di cui si parla non è un’ortodossia o comunque solo una dottrina cui dare la propria adesione. È bensì un’ortoprassi, come è stato notato più volte: un modo di vivere e agire. Dalle tavole sinaitiche fino a Gesù vien detto dunque che un comandamento da solo non basta.

          Infine la citazione di Lv 19,18 associata a quella di Dt 6,4s mostra in maniera indiretta come sia possibile una particolare forma di idolatria – forse la più insidiosa e temibile, perché più difficile da smascherare: quella di chi si autocentra.

          Solo amare il «prossimo» (ton plesion, v. 30) può scardinare questa possibilità, diventando concretamente la verifica della fede nel Dio unico.

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