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Una sapienza di «ieri» che illumina l’oggi e il domani

VIII domenica del tempo ordinario

Sir 27,5-8; Sal 91 (92); 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45

Il Vangelo di oggi ci presenta una serie di massime proverbiali, frutto di una sapienza che non ha tempo, perché esprime qualcosa che è proprio dell’esperienza umana, del vivere in relazione e dell’arte del costruire quello che oggi possiamo chiamare civiltà.

Prendiamo la prima massima: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro».

Si parte da una constatazione che di fatto non è del tutto ovvia, altrimenti non ci sarebbe bisogno di esprimerla. Il problema infatti è che spesso chi pretende di «guidare» un «cieco» non sa di esserlo a sua volta. Il senso è proprio «racchiuso» nel concetto di visione, e la visione, a sua volta, è data dalla consapevolezza del limite, una consapevolezza che si allarga e si estende – proprio come una «visione» – in proporzione alla conoscenza. Ecco perché il seguito della massima parla di discepolo e maestro.

Maestro è chiunque sia «ben preparato», chiunque ha una visione più ampia, che gli deriva da una maggiore conoscenza e, proprio per questo, è in grado di «guidare» e di insegnare ad altri. Tutto questo, che può sembrare così semplice e persino banale, purtroppo non lo è affatto, dato che i criteri con cui anche oggi si scelgono e si seguono delle «guide» sono molto raramente quelli che si basano sulla loro preparazione e conoscenza. Come scriveva il Qohelet tra il III e II secolo a.C., «Il peggio che ho visto sotto il sole è l’errore commesso da chi governa, con gli stolti posti in posizioni elevate e i sapienti umiliati» (Qo 10,6).

Quando poi la «cecità» è dilagante, allora il problema si acuisce, perché in un mondo di «insipienti» albergano i «tuttologi» e difficilmente le persone sono in grado di distinguere o hanno i mezzi per verificare se un’affermazione, una «visione», un testo sia autorevole o meno, dato che non conta «la preparazione» in quel determinato campo – e di conseguenza la qualità del contenuto trasmesso – ma l’immagine, il «nome», la «fama» e chi più ne ha più ne metta…

Passiamo alla seconda massima: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello». Siamo sempre nel campo semantico del «vedere», ma questa volta in prospettiva relazionale.

I difetti che vediamo negli altri, anziché farci da specchio e aiutarci a compiere un’analisi introspettiva, ci «dis-traggono» da una retta visione dei nostri limiti o mancanze e ci permettono di «trasferire» le nostre «travi» negli occhi degli altri. Così appaiono sempre macroscopiche le «mancanze» o gli errori degli altri nei nostri confronti e sempre più impercettibili i nostri sbagli o i nostri torti. Il problema più grande è quando queste dinamiche non coinvolgono solo singole persone e relazioni, ma diventano un modus operandi a livello di popoli e di stati, costituendo la base di propagande ideologiche atte ad alimentare conflitti che non conoscono fine.

E arriviamo così all’ultima serie di massime, tutte incentrate su ciò che ci porterà il futuro: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda». A prima vista sembra che ciò che viene affermato sia un destino ineludibile, una sorta di determinismo da cui non si può uscire: una realtà cattiva – sia esso un albero, una vite o il cuore di una persona umana – non può che produrre qualcosa di «cattivo».

Se questo è vero – e credo che almeno per quello che riguarda l’esperienza agricola sia inconfutabile –, è vero anche ciò che in profondità tale affermazione vuole dire. Perché ci siano buoni frutti l’albero va coltivato, va curato, a partire dal terreno, dalla potatura dei rami e così via. Ciò che vale per la natura vale anche per una comunità di persone, per un popolo, per una nazione e per tutti quei popoli e nazioni che si riconoscono all’interno di una comune civiltà.

La formazione delle persone è l’investimento più importante, delicato e «fruttifero» che ogni collettività ha il dovere e il compito di portare avanti. Un investimento costoso, che non produce rapidi guadagni e neanche risultati quantificabili, ma che solo può assicurare all’essere umano la possibilità e le condizioni per costruire una convivenza pacifica e rispettosa dell’alterità, della diversità.

Quanti soldi si spendono al mondo per una formazione «corretta» delle nuove generazioni? Una formazione che non metta delle armi in mano a bambini, che non proponga visioni unilaterali, che non alimenti l’odio o la vendetta, che non si basi su logiche di potere e di corruzione, che non pretenda di abolire perché estranei alla propria fede immagini, opere e patrimoni culturali del territorio dove si vive, una formazione che promuova la vita e che porti «buoni frutti».

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