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Una questione di vista

IV domenica di quaresima

1Sam 16,1b.4.6-7.10-13; Sal 22 (23); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41

Il Vangelo di questa domenica assomiglia a uno di quegli interrogatori incrociati tipici di un regime pesante e autoritario, forse non molto distanti da quelli che dovevano essere gli interrogatori dell’Inquisizione di un tempo. I verbi che rimbalzano tra i vari personaggi sono il «vedere» e il «sapere». Sullo sfondo ci sono le pre-comprensioni, ovvero gli schemi mentali attraverso i quali tutta la questione viene analizzata e compresa. Il tutto è poi condito da un’amara ironia.

La prima pre-comprensione è quella dei discepoli di Gesù, che di fronte a quest’uomo cieco dalla nascita chiedono al Maestro di chi sia la colpa. Per loro questa «difformità» è originata da un peccato, è segno visibile di una colpa che, secondo la mentalità dell’epoca (ma diffusa ancora oggi), poteva essere attribuita o ai genitori o al figlio stesso. E qui troviamo la prima amara ironia: se uno è cieco fin dalla nascita come fa la sua cecità a essere frutto di un peccato che abbia commesso? La domanda dei discepoli quindi non ha senso, almeno nei riguardi del cieco.

Gesù opera il miracolo, mette del fango sugli occhi del cieco e gli chiede di andarsi a lavare nella piscina dell’«inviato». Quando questi ritorna vedendoci, chi fa fatica a riconoscerlo sono coloro che «lo avevano visto prima». Sembra che l’acquisizione della vista di uno sia contemporanea con la perdita della «messa a fuoco» di altri. Il fatto comunque sembra abbastanza eclatante e si chiede il parere di altri uomini pii, i farisei. Anche per costoro l’approccio alla questione è pre-concetto; quel giorno è sabato e, anche se non c’è un’indicazione che vieti di curare un malato di sabato, a quanto pare c’è il fatto che tale cura ha comportato un’azione non permessa: prendere del fango. Su questo punto però non tutti sono d’accordo e così, ulteriore ironia, anziché vedere il risultato si perdono in una discussione senza via di uscita.

A questo punto interviene un’altra categoria di persone che, nel Vangelo di Giovanni, viene definita con il termine «giudei» e che svolge un costante ruolo di opposizione a Gesù. I «giudei» rimettono tutto in discussione e ricominciano con l’interrogatorio, prima al cieco e poi ai suoi genitori. Qui il tono della narrazione si colora di grottesco: i «giudei» non credono che il cieco sia stato veramente tale, insinuando così che la sua fosse stata una finzione. E per conferma interpellano i suoi genitori, i quali anziché rallegrarsi della guarigione del figlio ne prendono le distanze, come se il fatto di avere un figlio che ci «vede», che è quindi «sano», sia motivo di vergogna e di rifiuto.

Non essendo stata esauriente, comunque, la risposta dei genitori – che alla fine risultano non sapere nulla –, l’interrogatorio ricomincia e di nuovo, per la terza volta (o forse sarà stata anche la quarta?), viene richiesto al cieco «vedente» di raccontare quanto è avvenuto. Dal «vedere» o «non vedere» si passa al «sapere o non sapere». E anche qui si parte da un pre-concetto: il sapere dev’essere preordinato a un apriori che in questo caso riguarda la libertà di azione e di parola di Dio stesso. Chi viene da Dio e chi no? A chi Dio parla e a chi no? Di nuovo, anziché concentrarsi sulla realtà del fatto: c’è un cieco che ora ci vede (!), ci si perde dietro a questioni che potremmo definire «canoniche». Chi ha autorità e chi no? Chi ha potere e chi no? 

Nel frattempo Gesù incontra di nuovo il cieco vedente e porta a termine quanto aveva iniziato; la vista esteriore è preludio di quella interiore, il cieco ora è capace di vedere il «Figlio dell’uomo»: «Lo hai visto: è colui che parla con te». E così il «vedere» è capace di oltrepassare il «sapere», pre-concetto, e aprirsi al «credere»: «Credo, Signore». 

Tutto potrebbe finire così, ma in realtà, risolto il problema del cieco, emerge in primo piano il vero problema, ovvero la cecità dei «vedenti» i quali, in tutta questa storia, anziché rallegrarsi di quanto è avvenuto a quell’uomo, anziché cogliere in questo avvenimento un segno di salvezza, di speranza e soprattutto di vita, si «accecano» nei meandri della canonicità e «conformità teologica»: è lecito o non è lecito? Viene da Dio o non viene da Dio? Chi ha il potere di stabilirlo e chi non lo ha? E, purtroppo, il loro «peccato rimane». 

Ultima nota di riflessione: sullo sfondo della scena di questo racconto c’è la piscina di Siloe, nome che – Giovanni ci tiene a specificare – significa «inviato», in greco apestalmenos, dal verbo apostello da cui deriva anche il termine «apostolo». L’«apostolo», dunque, ieri come oggi, dovrebbe essere colui che permette la visione, che libera dalla cecità e apre alla «novità» di Dio.

E, fortunatamente, in ogni tempo della nostra storia, accanto alle nostre interminabili «discussioni» ci sono sempre delle persone «inviate» o «cieche dalla nascita» che ci dicono la possibilità di continuare a sperare, la possibilità di vedere, al di là delle varie definizioni «concettuali», la novità di Dio e di poter quindi continuare a credere che colui che è «l’Inviato» porterà a compimento la sua opera di salvezza.

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