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Una domanda in attesa di risposta

III domenica di Quaresima

Es 3,1-8.13-15; Sal 103 (102); 1Cor 10,1-6-10-12; Lc 13,1-9

          Per comprendere il Vangelo di questa settimana è opportuno prendere le mosse da alcuni versetti immediatamente precedenti; anzi, sarebbe conveniente risalire ancora più indietro per giungere al capitolo 11 di Luca. Il nesso più immediato con la fine del capitolo 12 è sottolineato dal testo evangelico: «In quello stesso tempo (kairos)» alcuni riferirono a Gesù dell’uccisione di un gruppo di Galilei (Lc 13,1) (la versione liturgica sopprime però l’aggettivo «stesso»).

          Qualche riga prima Gesù aveva rimproverato la propria generazione che, per quanto in grado di distinguere i segni meteorologici, rimane incapace di valutare «questo tempo (kairos)» (Lc 12,54-56). Il problema, dunque, è quello dei tempi e dei segni. Quest’ultimo termine ci rimanda al passo nel quale Gesù rimprovera la propria generazione, qualificandola malvagia perché va alla ricerca di segni, mentre non le sarà dato alcun altro segno se non quello di Giona. Infatti come questo profeta fu un segno per Ninive «così anche il Figlio dell’uomo lo è per questa generazione». Ninive si convertì, perciò nel «giorno del giudizio» i suoi abitanti accuseranno la generazione che non ha ascoltato la predicazione di chi è più grande di Giona (Lc 11,29-32).

          Non si tratta solo di grandezza, entra in gioco anche la modalità della predicazione. Giona, nell’atto di annunciare la punizione, aveva proclamato «ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Gn 3,3). La grande intuizione dei niniviti consistette nel non lasciarsi sgomentare dall’annuncio infausto e, all’apparenza, fatale. A esso si rispose con penitenza e digiuni. Non si trattò di un atto consueto e rituale; in quel frangente si comprese l’eccezionalità del momento. Le cose si presentano per tanti aspetti diverse in relazione a Gesù. Il linguaggio di partenza non evoca alcuna punizione. I galilei uccisi e le persone travolte dal crollo della torre di Siloe non erano più peccatori di altri. Impossibile non proporre al riguardo una tragica attualizzazione: coloro che in Ucraina sono colpiti dalle bombe e dai razzi nelle loro case o per la strada non sono più colpevoli di altri, la loro morte non è una punizione. Eppure Gesù aggiunge: «Se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3). La sventura non è legata alla colpa, ma non è neppure scissa dalle responsabilità. Nessuno è esonerato dal convertirsi.

          I niniviti non hanno udito un «se... allora», però hanno agito come se lo avessero ascoltato. La generazione di Gesù, al pari della nostra, l’ha invece udito ma non l’ha ascoltato. O almeno la nostra non l’ha fatto fino a ora. Il libro di Giona finisce con l’immagine del profeta, seduto all’ombra del ricino, che si rammarica di non vedere adempiersi lo spettacolo della distruzione della città da lui annunciato. Quando fu privato della protezione vegetale, Dio stesso rispose alle sue lagnanze mostrandogli la grande forza della conversione (Gn 4,5-11). Dopo i niniviti, anche Giona è chiamato a convertirsi. Tuttavia il libro profetico finisce in modo sospeso; termina infatti con un punto interrogativo, sia pure posto a coronamento di una domanda retorica. Non ci è dato sapere se il profeta che annunciò la distruzione e, con le sue parole, indusse alla conversione si sia a propria volta convertito alla nonviolenza.

          In Luca al posto del ricino c’è un fico, che simboleggia lo spazio del possibile. All’inizio del Vangelo era risuonata la parola di Giovanni Battista; essa proclamava un giudizio imminente e additava la presenza di una lama pronta a colpire: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,9). Tre anni sembravano sufficienti per consegnare la pianta a quel destino. Il vignaiolo chiede invece una dilazione di altri dodici mesi durante i quali si prenderà cura del fico; poi si vedrà.

          La conclusione della parabola resta in sospeso ancora di più di quanto non avvenga per il libro di Giona: non si conosce la risposta del padrone e, nel caso in cui quest’ultima fosse positiva, si ignora se l’albero, grazie alle cure da esso ricevute, sia tornato a essere fruttifero. Il punto interrogativo qui non è retorico, come non lo è quando si lanciano pressanti richiami alla conversione e si sollecita un mutamento dell’operare che eviti la distruzione o almeno, e sarebbe già molto, ponga fine a quella in corso. Anche in questo caso si è di fronte a una domanda in attesa di risposta.

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