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Un vestito per Gesù

XV domenica del tempo ordinario

Am 7,12-15; Sal 84 (85); Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

Diversi anni fa nell’itinerario di formazione della Compagnia di Gesù (i gesuiti) e, sull’esempio di questi, di altri istituti religiosi maschili, era prevista tra le varie tappe anche quella di sperimentare un viaggio, a due a due, verso una determinata meta. Il viaggio doveva essere fatto con un bagaglio estremamente ridotto, senza soldi e senza rivelare la propria appartenenza all’ordine religioso. I «viandanti» dovevano vivere il viaggio confidando solo sulla provvidenza e sull’accoglienza da parte di parrocchie o famiglie che incontravano lungo il loro percorso. Un’esperienza forte, anche dura, che sarebbe stata importante per il loro cammino formativo. 

Credo che oggi tutto questo non sia più possibile per varie ragioni, ma l’idea ispiratrice di tale «missione» proveniva proprio dal passo evangelico di questa domenica dove Gesù invia i suoi discepoli con queste parole: «E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche». 

L’invio poi è finalizzato all’incontro – «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì» – e a sperimentare l’accoglienza e anche la possibilità del rifiuto: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».

Viene quindi descritta la loro missione: annunciare la buona novella, scacciare i demoni, ungere gli infermi e guarirli. In altre parole portare vita, consolazione, conforto e, non in ultimo, annunciare l’amore salvifico di Dio, fonte di libertà e di liberazione da qualsiasi male.

Come già detto prima, oggi un «viaggio» del genere sarebbe impensabile, almeno nel nostro mondo occidentale, ma le caratteristiche di questo invio continuano ad avere il loro valore e il loro senso.

Che cosa significa oggi camminare per le strade senza soldi, senza «particolari» vestiti che hanno la funzione di farsi riconoscere in un particolare «status», senza essere certi di essere accolti o di avere una «canonica» a disposizione? In altre parole rischiare di essere persone qualsiasi, pronte solo a riconoscere i bisogni di chi si incontra, disponibili all’ascolto e portatori di speranza?

Vorrei fermarmi proprio su uno di questi particolari: Gesù non aveva vestiti particolari, andava in giro come qualsiasi altro ebreo del suo tempo e anche i suoi discepoli non portavano segni particolari, non era al loro riconoscimento che miravano, né tanto meno a uno «status» diverso da quello della gente comune; e questo contrariamente ad altri gruppi religiosi che, stando alla descrizione dei Vangeli, portavano segni di riconoscimento.

Tra i possibili esempi si può ricordare Giovanni Battista, che «portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi» (Mt 3,4), o gli scribi e i farisei, che «allargano i loro filattèri e allungano le frange» (Mt 23,5). Il fatto che Gesù non abbia scelto né per sé né per i suoi alcun segno di riconoscimento è un puro caso o anche questa sua posizione nei confronti del mondo religioso del suo tempo ha in sé un messaggio, un valore che forse è ancora oggi tutto da «riscoprire»?

Nell’inviare i dodici Gesù non dice loro di dire chi essi siano, di dichiarare di essere suoi discepoli, ma di parlare al cuore delle persone, di annunciare loro la salvezza, di ungere i loro corpi, di offrire loro la guarigione da ogni legame di male. Ed è questo ciò che conta: alla gente non importa sapere chi essi siano, ma che cosa offrono loro, che cosa hanno loro da dire. 

Vorrei concludere con un racconto del vescovo mons. Derio Olivero, che forse rende ancora più – concedetemi l’espressione – drammatica la questione. In occasione della partecipazione all’ordinazione episcopale di mons. Repole, il 15 maggio 2022, il vescovo Derio racconta: «Oggi sono stato a Torino per l’ordinazione del nuovo arcivescovo. Ho parcheggiato vicino ad alcuni vescovi del Piemonte e con loro mi sono avviato verso il sagrato della cattedrale. Per la solenne occasione eravamo vestiti con la talare filettata e la fascia. Nel cammino passiamo vicino a una panchina dove stavano seduti alcuni giovani. Uno, con voce sorpresa, dice agli altri: “Chi sono questi, vestiti così strani?”. Non era una frase di scherno o di critica. Nessuno ha riso né ha fatto commenti volgari. Era davvero una domanda».

Il racconto del vescovo continua e alla fine conclude con queste parole: «Ecco il mio compito di vescovo: guidare la mia Chiesa a stare con umiltà in mezzo alla società, senza pretese, con una voglia matta di aiutare ogni uomo e ogni donna a vivere, a trovare fiducia e speranza. Stare in mezzo alla società con la stessa dedizione gratuita di Cristo. Sapendo che proprio questo è l’atteggiamento del Risorto: anche oggi si fa umile compagno di viaggio, garantendo a tutti il compimento della vita» (L’Eco del Chisone 11.5.2022). Chissà se davvero il desiderio di stare in mezzo «agli altri» necessiti proprio di «particolari» segni o vestiti...

 

Commenti

  • 13/07/2024 Rosaria

    Certamente l'essere religioso/a non necessita di vestiti particolari che ti servono per dichiarare, forse solo esteriormente, il tuo status e le tue scelte. Necessita però di un abitus interiore che si palesi attraverso il comportamento, l'atteggiamento, il linguaggio...

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