Tre anni di pontificato. La scelta di Francesco

Appena
eletto papa, tre anni fa, ci sembrò di poter cogliere tre questioni (o sfide)
che provenendo dal suo stile personale avrebbero ben presto informato di sé il
pontificato e la Chiesa. Tutto promanava dalla scelta del nome: Francesco (Regno-att. 6,2013,121). Una scelta
inedita, dirompente, da fare epoca. E tuttavia, Bergoglio sembrava da subito
sostenere quella scelta così rischiosa con semplicità, naturalezza, come se
quel nome fosse davvero il suo. Da sempre.
Le questioni erano (e sono) queste: il rapporto tra profezia e istituzione; il riordino simbolico della Chiesa e il suo fondamento teologico; l’effetto comunicativo e la sua possibile (allora avrei detto inevitabile) consunzione.
Inutile dire che le tre questioni sono ancora aperte. E forse lo saranno sempre. Ma a papa Francesco premeva e preme con urgenza aprire processi, ben sapendo di non poterli chiudere. Ci vuole una grande umiltà, frutto di una spiritualità profonda, radicale, che s’affida totalmente a Dio e non confida in nulla nelle proprie forze o capacità per poterlo fare.
La scelta di Bergoglio come papa e la sua scelta di portare il nome Francesco venivano dopo la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, altra scelta di grande umiltà e dirompenza, che attestava inequivocabilmente la profondità della crisi istituzionale (come crisi di autorità) della Chiesa cattolica (Supplemento a Regno-doc.. 3,2013).
La dialettica tra profezia e istituzione ha caratterizzato e forse sostenuto l’intera storia della Chiesa. Quando Giotto ci mostra mirabilmente, nella basilica superiore di Assisi, il Sogno d’Innocenzo III, nel quale appare frate Francesco che sostiene una traballante Basilica lateranense, ci mostra la distinzione tra profezia e istituzione, una distinzione in virtù della quale l’istituzione può integrare, almeno parzialmente, la profezia stessa, rimanendo in fondo diverse.
Papa Francesco incarna simbolicamente e programmaticamente entrambe le dimensioni. E questo è l’inedito. Non più solo un’opportuna accoglienza, ma la convinzione che la profezia può salvare l’istituzione. Egli ha percepito sia il cambiamento profondo cui è approdato il mondo globalizzato, sia la crisi del cristianesimo, soprattutto in Occidente. La scelta di Francesco è quella di passare dal dogma al kerigma.
Da un approccio cumulativo, unilateralmente preoccupato di dare ragione sempre, in ogni punto dell’enunciazione e della comunicazione, del contenuto dogmatico della fede cristiana a una concezione processuale e relazionale, incentrata sull’offerta del Vangelo di Dio, che implica il riconoscimento della libertà e soprattutto della capacità di apprendere e la creatività di coloro che comunicano e di coloro che ricevono l’annuncio.
Al centro del suo magistero c’è questo: vivere il Vangelo. Annunciarlo con la vita. Il Vangelo è possibile perché tocca il centro della nostra umanità. Vi è una corrispondenza profonda tra il centro della nostra umanità e il centro dell’umanità di Cristo. L’annuncio della fede deve essere fatto risuonare nuovamente, come fosse la prima volta, andando oltre le forme culturali prevalenti che sin qui l’hanno espresso.
Il forte impulso del magistero di Francesco all’uscita della Chiesa da se stessa, dalla propria certezza di centralità anche mondana, configura la cura di sé come istituzione, la pura conservazione dottrinale come debole resistenza alla corruzione di questo tempo, in fondo come tentazione narcisistica della Chiesa stessa, che ripete in sé i vizi del tempo.
L’istituzione non salva
Non ci si salva in quanto istituzione. Per questo la Chiesa, secondo Francesco, deve essere umile e povera in spirito, secondo il mandato delle Beatitudini. L’umiltà è infatti la rinuncia a esistere al di fuori di Dio. Questo stile è coestensivo a tutto quello che si è, e a quanto si ha. Da tale sentimento nasce la necessità di tutto chiedere, come chiede un uomo che conosce la sua indigenza.
Da tale sentimento nasce la necessità di tutto dare, come dà chi sa di avere ricevuto tutto. Sentire che tutto viene da Dio e dalla sua grazia è la sola via che consente alla Chiesa di crescere, d’essere ancora credibile, attraente e vicina agli uomini del nostro tempo. Da questa scelta derivano altre scelte: una Chiesa post-ideologica, lontana dal potere, e prossima a tutti, a partire dai più poveri. Una Chiesa che deve riflettere il volto di Dio misericordioso.
La Chiesa per papa Francesco è molto di più di un’istituzione organica e gerarchica, essa è popolo di Dio, soggetto comune della fede e dell’evangelizzazione. Quando il vescovo di Roma appena eletto chiede al popolo di pregare e di benedirlo riconosce la sua soggettività credente e orante.
L’ecclesiologia di papa Francesco, in quanto ecclesiologia di comunione, individua il nesso preciso tra collegialità, sinodalità e primato, e, agendo sul rinnovamento del principio sinodale, riequilibra la relazione tra sinodalità e primato, tra Chiesa locale e Chiesa universale.
Quando nell’esortazione Evangelii gaudium egli afferma la necessità di una conversione del papato (per essere «più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione», n. 32; EV 29/2138) pone fortemente questi temi, consapevole anche dei risvolti ecumenici che essi hanno.
Ancora più difficile la sfida del rapporto con i media. Non ponendo fra sé e la comunicazione alcuna barriera e neppure alcun filtro, papa Francesco rischia talora il fraintendimento o quella che lui chiama la «franceschite», una specie di sovraesposizione. Non sembra curarsi troppo dell’una e dell’altra. È convinto che la gente lo comprenda grazie (e nonostante) i media.
Francesco ha accettato e proposto una sfida enorme, che certo produce anche una vistosa pars destruens nell’istituzione stessa e che va ricomposta con la riforma dell’istituzione stessa. Ma egli non è un papa dell’istituzione, è un pastore.
Cinquant’anni dopo il concilio Vaticano II, un papa di nome Francesco riprendendo il tema del primato della pastorale riprende e attua lo stile del Vaticano II, che non aveva né semplicemente il carattere della dottrina dogmatica sempre valida, né quello della disposizione canonica, bensì quello di una direttiva pastorale.
Papa Francesco ha di fronte a sé la difficoltà e il compito di fondare teologicamente quell’appello pastorale. Si tratta di un mandato risultato incompiuto nel concilio Vaticano II, accantonato nel postconcilio e che oggi risulta impellente.
Ha detto che non vuole procedere da solo. Ha Chiesto a tutta la Chiesa di crederci e di provarci.
Gianfranco Brunelli
@Il Regno