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Tra fedeltà alla Parola e tradizione umana

In questa domenica il Vangelo di Marco ci presenta una diatriba tra alcuni farisei e Gesù riguardo a questioni di «purità» rituale

XXII domenica del tempo ordinario

Dt 4,1-2.6-8; Sal 14 (15); Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

 

In questa domenica il Vangelo di Marco ci presenta una diatriba tra alcuni farisei e Gesù riguardo a questioni di «purità» rituale. Purtroppo tale brano viene spesso e volentieri frainteso, e utilizzato per affermare che Gesù prende le distanze dalle regole alimentari ebraiche (kasherut), che al loro interno hanno anche un elenco di cibi che vengono considerati puri o non puri.

Prima di tutto vale la pena ricordare che tali regole hanno un fondamento biblico, ovvero l’osservanza di ingerire alcuni cibi e di astenersi da altri si basa su precisi versetti della Torah/Pentateuco. In secondo luogo l’ebraicità di Gesù, la sua appartenenza al popolo ebraico, che spero oggi sia un dato ormai incontrovertibile e accettato da tutti i cristiani, non lo esime da tale osservanza, così come non rappresentava una dispensa nemmeno per i suoi primi discepoli e discepole, tutti appartenenti al popolo ebraico.

Semmai la questione dell’osservanza della kasherut (delle regole alimentari) si porrà successivamente riguardo a coloro che si uniranno al movimento gesuano provenendo dal mondo dei gentili. E su questo punto varrà quanto gli Atti degli apostoli riportano nella cosiddetta «lettera apostolica» di At 15,22-29: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!» (At 15,28-29).

Premesso tutto ciò, in che cosa consiste allora la discussione tra questi farisei e Gesù? Marco ci dice chiaramente che l’obiezione posta riguarda il lavaggio delle mani, un’usanza che era stata successivamente introdotta in Giudea, ma che forse non aveva ancora fatto presa nella Galilea: «Tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni».

Avendo dunque visto i discepoli di Gesù prendere cibo senza essersi prima lavati le mani, i farisei gli pongono questa domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Alla base di questa ulteriore regola introdotta «dalla tradizione» c’è l’idea che il mangiare cibo «puro» (ovvero conforme alle regole alimentari prescritte nella Torah) ma con mani «impure», ovvero sporche o rese impure dal contatto con qualcosa che ha a che fare con la morte (fosse pure il cadavere di una mosca), avrebbe reso anche quel cibo, di per sé puro, impuro.

A tale obiezione segue la risposta di Gesù, che si articola su più livelli. Il primo riguarda l’origine di tali norme «aggiunte», che definisce «dottrine che sono precetti di uomini» e «tradizione di uomini», richiamando così l’attenzione a una questione fondamentale: lo iato e le difficoltà che intercorrono tra la parola di Dio e la sua applicazione e traduzione in «pratiche».

Il secondo livello riguarda la «purità del cibo», una purità si potrebbe dire intrinseca, che non viene contaminata dal contatto esterno. In Mc 7,19 – un versetto che nella versione liturgica di questo brano è stato omesso –, infatti, si legge: «Così rendeva puri tutti gli alimenti»; ma non bisogna dimenticare che per «tutti gli alimenti» s’intendono quelli ammessi dalla kasherut, ovvero secondo la descrizione che si trova nella Torah/Pentateuco. Particolare, questo, importante e, come abbiamo già detto sopra, spesso frainteso o ignorato.

Il terzo livello consiste in un invito ad andare in profondità, ovvero a passare da un’attenzione alla purità esteriore a quella interiore: c’è una capacità di «contaminare» che è insita nell’uomo e che è più «mortale» di qualsiasi impurità «esteriore»: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Un dato interessante è che la pratica di lavarsi le mani prima di mangiare – oggi considerata buona norma igienica – ha preservato tantissimi ebrei dalle epidemie che hanno attraversato i secoli, facendo guadagnare loro, purtroppo, spesso e volentieri l’accusa di «untori», proprio a causa del numero inferiore di morti registrate tra di loro all’interno della stessa cinta muraria. Oggi, dopo l’esperienza del COVID, siamo tutti in grado di apprezzare e comprendere il valore di tali norme «aggiunte» dalla tradizione «degli uomini», ma la questione rimane di estrema importanza: quante e quali sono le norme, tra i cristiani (e nel nostro caso tra i cattolici), che appartengono alla «tradizione degli uomini», e quanto queste «norme» distolgono lo sguardo e l’attenzione da una fedeltà alla Parola del Signore che sia più interiore che esteriore?

Vorrei terminare riportando un brano di un dialogo intercorso tra due persone che appartengono già interamente al «mondo di Dio», la biblista Maria Luisa Rigato e il card. Carlo Maria Martini. Si tratta di uno scambio epistolare apparso sul Corriere della sera il 30 gennaio 2011. Maria Luisa Rigato scriveva al card. Martini: «È “viva Tradizione” l’insegnamento del disprezzo per gli ebrei, espresso anche nella nostra liturgia, ripudiato finalmente dal concilio Vaticano II? È “viva Tradizione” – per giunta irriformabile come affermano alcuni teologi – ciò che di fatto è delirio di superiorità nei confronti della donna, per giustificare la sua esclusione dal ministero ordinato? Mi torna sempre in mente il logion di Gesù, il quale in polemica intragiudaica risponde ai suoi interlocutori: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini… annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,8.13)». E così il card. Martini rispondeva: «Auspico con lei che si faccia chiarezza con serietà e metodo sul significato di “viva Tradizione”. Certamente nessuna forma di disprezzo può essere considerata come “tradizione” né, ancor meno, come “evangelica”. Il versetto di Marco da lei citato ne è il fondamento. Nei Vangeli l’immagine della donna emerge quanto mai prediletta rispetto a molte delle figure maschili. Il dato più schiacciante in questo senso è il presentarsi del Risorto a una donna come prima e assoluta testimone. È una donna che evangelizza gli evangelizzatori. La Chiesa in questo senso ha ancora molto da scoprire».

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