Tommaso e il suo gemello
II domenica di Pasqua o della divina misericordia
At 2,42-47; Sal 117 (118); 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
Nel Vangelo di questa domenica Giovanni mira a sottolineare la continuità tra il Gesù storico, l’uomo crocifisso, e il Gesù risorto che appare ai suoi discepoli. Quello che infatti «si mostra» ai loro occhi non è un fantasma e neanche un «ologramma», per usare un termine moderno, ma il Gesù, che hanno conosciuto, ora nella sua pienezza di vita, ovvero nella sua pura soggettività.
Cerchiamo di capire quest’ultima espressione, «pura soggettività». Ogni persona è, nella sua vita, sia oggetto che soggetto. Siamo oggetto perché non possiamo eludere lo sguardo degli altri, non possiamo nasconderci dalla vista altrui. Se siamo in un luogo in cui ci sono altre persone, non possiamo evitare di essere oggetto dei loro sguardi.
Siamo però allo stesso tempo soggetti, ognuno di noi ha una propria identità, diversità e storia, tutti elementi che non possono essere «oggettivati» da altri e che rimangono soggettivi, inerenti al nostro essere. Se non posso escludermi, nascondermi, dalla vista di un altro che è nel mio stesso luogo, tutto ciò che però mi appartiene, la mia identità, il mio vissuto, la mia storia, in sintesi la mia soggettività, non è di per sé visibile senza una mia libera decisione di renderlo manifesto, di esprimerlo.
Il Gesù risorto è pura soggettività, egli «è» in mezzo ai suoi discepoli e, liberamente, sceglie di farsi visibile ai loro occhi. «A porte chiuse... venne Gesù, “stette” in mezzo» a loro. Non deve venire da lontano, il Signore è già lì in mezzo a loro. In tutte e due le apparizioni Giovanni colloca Gesù «in mezzo». Il Signore è in mezzo alla Chiesa, è in mezzo alla comunità cristiana, il Signore è «già presente». Il Signore «si rende presente», cioè «si fa vedere dove già è».
Ed è proprio la «pura soggettività» del Risorto ciò che determina la condizione per poterlo vedere, ovvero non è possibile pretendere di vederlo come un oggetto, ma solo se liberamente, nella nostra soggettività, ci relazioniamo a lui.
I discepoli sono quindi chiamati a sperimentare questa «visione di fede» e lo sguardo che questa produce sul mondo, sul concetto di «realtà», sull’oggettività o soggettività di ciò che vediamo.
Per comprendere questo ci viene in aiuto, nella seconda scena del Vangelo, Tommaso e la sua richiesta di «vedere» e «toccare» Gesù. Tommaso viene chiamato «didimo», cioè «gemello». La cosa strana è che l’altro «gemello» di Tommaso non compare mai nei testi evangelici, non si sa chi sia né se abbia o meno seguito il fratello nella sequela di Gesù.
Di chi è allora gemello Tommaso? Ovviamente una risposta «oggettiva» a questa domanda non c’è; ma possiamo però riflettere su questa «assenza/presenza». Tommaso, in questo brano, fa la figura del «non credente», di quello che ha bisogno di dati «oggettivi»: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Però allo stesso tempo Tommaso è credente, lo è non solo perché fa parte di coloro che hanno seguito Gesù nel suo ministero pubblico, ma anche perché continuerà a essere insieme agli altri nella vita della comunità. In Tommaso, dunque, vi sono le due anime: quella del non credente e quella del credente, i due «gemelli» che in realtà abitano nel cuore e nella mente di ciascuno di noi.
Bene ha espresso questo concetto il card. Martini quando nel 1987, a Milano, in apertura della «Cattedra dei non credenti» affermava: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, s’interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa».
Costantemente siamo tentati di trasformare la nostra fede in un «oggetto», e dietro a questo termine possiamo porre un’infinità di esempi: definizioni, gesti rituali, statue o immagini varie, e altro ancora … qualcosa comunque che ci possa rassicurare, che possiamo «di-mostrare», ostentare, manifestare. Ma dall’altra parte nulla di tutto questo ci riempie, ci soddisfa, ci dona «pace». Forse, per alcuni, sarebbe bello poter andare in giro e ostentare l’«oggetto» della nostra fede, come un trofeo da mostrare, come un dato incontrovertibile. Ma il rischio è che andando dietro a tale desiderio rinunciamo e ci allontaniamo da ciò che davvero è la realtà della fede, ovvero l’incontro con «colui» che è irriducibilmente solo «soggetto».
La prima lezione del Risorto è proprio questa: quella di insegnarci a relazionarci a lui, a tutto ciò che siamo e che è intorno a noi, cogliendo l’alterità di ogni cosa, l’unicità del tutto, aprendoci così alla visione «soggettiva» che ci rende capaci di gustare e «vedere», tra il «già» e non «ancora» della nostra realtà, la bellezza del Risorto e la sua realtà a cui già apparteniamo.