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Tommaso, che si fa domande

II domenica di Pasqua

At 2,42-47; Sal 118 (117); 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31

L’aramaico thomas significa «gemello», e anche il greco didymos significa «gemello» – ne è quindi la traduzione –; c’è allora il dubbio che non si tratti di un vero nome proprio raddoppiato, tanto più che il testo non precisa di chi sia gemello, mentre in altre occasioni viene precisato il legame tra fratelli (cf. per esempio Gv 1,40). Stando così le cose si può pensare, pur con tutte le dovute cautele, che con questa denominazione si voglia indicare un tipo di apostolo, un apostolo con certe caratteristiche, senza identificare una persona precisa, un po’ come accade con il discepolo amato.

E quali sarebbero le caratteristiche dell’apostolo-gemello, se non quelle di una personalità geminata, portata a interrogarsi e a interrogare, non priva di dubbi e magari di contraddizioni e tuttavia profondamente coraggiosa e leale, disposta alla fede e alla professione di fede?

Percorrendo le diverse occorrenze del nome thomas, che ricorre in tutto dodici volte nel Nuovo Testamento, sei di esse sono in Giovanni (cf. 11,16, 14,5, 20,24, 20,26, 20,28, 21,2); di queste, tre hanno anche didymos. D’altra parte le occorrenze si fanno più fitte nei due ultimi racconti delle apparizioni del Risorto, a dire che lì sta il nucleo di tutto, specialmente del personaggio.

Del primo di questi, Tommaso è protagonista. Il racconto si articola in due momenti: dapprima il Gemello è assente, senza che ci venga precisato il perché. Probabilmente non ha paura come gli altri ed è andato in giro per vedere la situazione. Si tratta comunque di un’assenza strana, che chiederebbe di essere giustificata, visto che il gruppo degli undici, una volta venuti via dal Calvario, pare sempre coeso, se non altro per difendersi. In realtà il Gemello sembra un uomo non troppo pauroso, visto il coraggio un po’ spavaldo con cui si espone in Gv 11,16.

In questa prima scena, assente il Gemello, Gesù compare all’improvviso, saluta i suoi col saluto quotidiano usato dagli ebrei, shalom ‘alekem, e senza dire altro mostra le sue ferite. Questo linguaggio pare molto eloquente agli undici, che non si esprimono in altro modo che con una gioia silenziosa. Gesù ripete il saluto, dà un incarico ai suoi e li rigenera col suo soffio (cf. Gen 2,7), il tutto ancora nel silenzio da parte degli apostoli.

Finalmente, al v. 24 si dice che il Gemello non c’è. Quando torna e viene messo al corrente dell’apparizione di Gesù, non si separa dal gruppo, come accadrebbe a chiunque altro che si ritenga defraudato di qualcosa che gli spetti e si senta offeso. Il Gemello resta attaccato alla comunità nella quale, bene o male, si riconosce, e Gesù stesso gli riconoscerà il diritto non solo della constatazione oculare, ma anche di quella tattile con tre imperativi (phere idephere, 20,27).

L’unica parola da parte umana in tutto questo secondo episodio viene dal Gemello, ed è una professione di fede esplicita e forte (cf. 20,28). Egli riconosce Gesù come Signore (kyrios) e Dio (theos), ma entrambi i termini hanno l’articolo determinativo, quasi a dissipare dubbi e ambiguità.

L’incontro si conclude con un macarismo, una beatitudine, di cui dovremmo essere grati al Gemello. Secondo alcuni potrebbe anche essere riferito al Discepolo amato (cf. Gv 20,6.8-9), ma lo ritroviamo in altra forma in 1Pt 1,8-9: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.

L’importanza del credere-senza-vedere è non solo fondativa della vita della Chiesa, ma anche condivisione della gioia provata dagli apostoli nel primo incontro con Gesù. Essa equivale a una continuità di esperienza e il Gemello, che ha quasi preteso di sperimentare le ferite del Risorto, salvo poi rinunciarvi, ha conquistato per noi una beatitudine.

Ci ha conquistato anche un non meno importante diritto a dubitare o, quanto meno, ad avere delle perplessità: Gesù infatti non lo rimprovera, ma gli offre la possibilità di diventare credente. In greco, basta togliere un semplice a privativo, per passare da apistos a pistos: quasi a dire che il passaggio dall’incredulità alla fede può anche essere piccola cosa.

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