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«Tenevano rami di palma nelle loro mani» (Ap 7,9)

Domenica delle palme

Mt 21,1-11; Is 50,4-7; Sal 21 (22); Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66

Il tempo di quaresima termina con questa domenica chiamata «delle palme». È una domenica di transizione, che apre alla settimana santa, in cui i cristiani sono chiamati a rivivere gli ultimi giorni terreni e la pienezza di vita del Messia Gesù: l’ultima cena con i suoi discepoli, la sua passione e morte, l’annuncio della sua risurrezione. 

La liturgia prevede che il rito inizi fuori della chiesa con la proclamazione del Vangelo e la benedizione dei rami d’ulivo, per poi entrare in corteo dentro la chiesa, dove oltre alla prima e alla seconda lettura si ascolterà il racconto della passione, che quest’anno è preso dal Vangelo di Matteo. C’è un contrasto tra il momento iniziale, segnato dalla gioia e dalla speranza che i ramoscelli di ulivo evocano, e quanto avviene dopo, ovvero il racconto della fine: la morte di Gesù.

Vorrei solo soffermarmi su alcuni particolari. Il primo riguarda proprio il segno dell’ulivo. Nel testo di Matteo si parla di «rami tagliati dagli alberi» e, dato che siamo sul Monte degli ulivi, questi rami non potevano essere che di ulivo. Ma nel Vangelo di Giovanni, invece, si dice che la gente «prese dei rami di palme» (Gv 12,13); ci troviamo quindi di fronte a un ottimo esempio in cui nella tradizione liturgica il testo biblico perviene in tutte le sue forme e differenze senza escluderne nessuna: la domenica è «delle palme», ma a essere benedetti sono rami di ulivo. 

La scena che viene raccontata è colma di gioia e di speranza; sentimenti che vengono espressi proprio attraverso i rami di ulivo e il grido «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». L’ulivo nella tradizione biblica è sinonimo di vita: ricorda l’immagine della colomba, che ritorna con un ramoscello di questa pianta per annunciare a Noè che le acque si sono ritirate, che è possibile ritornare a vivere sulla terra (Gen 8,11), e proprio per questo diventerà segno di pace e di riconciliazione tra Dio e tutto il creato, uomini, animali, natura.

Le parole di gioia, il grido dell’«osanna», esplicitano poi il fatto che la folla presente alla scena riconosce in Gesù il nuovo re, il Messia, colui che è tale per volontà di Dio. Inoltre tale grido ha in sé anche una supplica: «osanna» è infatti un’espressione aramaica, rimasta invariata nell’originale greco (e anche nelle nostre traduzioni in lingua moderna), che significa «salva, ti prego» e che si ritrova nella sua forma ebraica anche nel Salmo 118,25.

Il tutto sta a indicare, compresi anche i mantelli stesi per terra, che quanto sta avvenendo è la proclamazione del Re Messia davidico annunciato dai profeti e atteso dal popolo. L’elemento regale è esplicitato, non da ultimo, anche dal particolare della cavalcatura su cui Gesù si accinge a scendere verso Gerusalemme. Il richiamo è al profeta Zaccaria, così come ricorda, oltre a Matteo, anche Giovanni (Gv 12,15): «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9).

Era usanza infatti, per i re davidici, prendere possesso del loro trono a cavallo di un asino che ne esprimeva da una parte l’umiltà, dato che il loro regnare era sempre al servizio di Dio, vero e unico re di Israele, e dall’altra la nobiltà regale. Una scena simile la si ritrova, ad esempio, nel racconto dell’investitura regale di Salomone, anch’egli a cavallo di un asino (1Re 1,38-39).

Tutto sembra compiersi in un clima di festa, di gioia, ma l’entrata di Gesù a Gerusalemme, come l’entrata dei credenti in chiesa, per continuare la celebrazione di questa domenica, presenta uno sviluppo opposto: l’ingresso di Gesù nella città del Signore segnerà la sua consegna nelle mani del sinedrio e poi dei romani che lo condanneranno a morte; ed è proprio questo ciò di cui, in chiesa, si farà memoria mediante la lettura della sua passione. Dalla gioia e dall’esultanza si passa alla storia, attraverso cui ciò che è una speranza diventa realtà.

Il Messia, il Salvatore, per essere davvero tale deve attraversare la sofferenza, il male, la morte; e questo non per un «progetto divino predeterminato», ma perché è l’unico modo perché la salvezza sia veramente tale, perché ogni uomo e ogni donna possa non sentirsi solo/a nel proprio dolore, nella propria sofferenza, nella propria morte.

Un Dio che muore nella sua umanità è un Dio capace di inabitare in pienezza la nostra umanità, di abolire ogni distanza, di rivelarsi nella sua vicinanza sempre e in ogni circostanza. Se la vera salvezza è vivere per sempre con Dio, condividere la sua pienezza di vita, questo è possibile proprio perché non c’è realtà umana che Dio, nell’umanità del Figlio, non abbia attraversato, sperimentato, «abitato».

Come recita l’antico inno cristologico che Paolo ci riporta nella Lettera ai Filippesi, «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio», ha assunto in pienezza su di sé la condizione umana, affinché tutta l’umanità possa in lui un giorno assumere in pienezza la condizione divina: abitare nella tenda che Dio ha fatto per tutti: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).

 

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