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Tenace amore

IV domenica di Quaresima

2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

          I primi quattro capitoli di Giovanni disegnano lo scenario ambientale e umano entro il quale si svolge l’intera vicenda di Gesù. La Galilea, il Tempio, Gerusalemme, la Samaria: in questi luoghi Gesù incontra pescatori, abitanti di villaggio a un banchetto di nozze, mercanti e frequentatori del tempio, un dottore fariseo, una donna dalla vita movimentata, un funzionario pagano. Sono, come si vede, mondi diversificati quasi più del paesaggio in cui s’inquadrano, ed esigono ognuno un linguaggio proprio e segni che lo accompagnino.

          Il dialogo con il dottore fariseo (Gv 3,1ss) membro del Sinedrio (Gv 7,50) e forse, alla fine di un percorso a noi ignoto, discepolo, tanto da esercitare tutta la sua pietas al momento della morte di Gesù (Gv 19,39), si conclude con un monologo del Maestro sul tenace amore di Dio per il mondo illustrando quale sia la sua missione e come accadrà.

          L’incontro avviene di notte – dettaglio su cui l’evangelista insiste ogni volta che parla di questo personaggio –, lasciando pensare alla dimensione salvifica della notte e a quella più direttamente antropologica della notte come tempo di confidenza e intimità. La dimensione salvifica rimanda all’Esodo che, com’è stato notato (Sahlin), è il filo conduttore del libro dei segni giovanneo con la mediazione di Sap 10-19.

          Della dimensione antropologica non viene detto nulla, ma possiamo immaginare che dopo giornate movimentate solo il silenzio notturno possa favorire la confidenza di un colloquio. Nicodemo infatti cita i «segni» compiuti da Gesù (3,2), facendo pensare che forse fosse presente nel Tempio al momento della purificazione.

          Il colloquio che segue si gioca su alcune ambiguità del linguaggio e sull’ironia. Probabilmente andrebbero indovinate alcune domande inespresse che guidano le argomentazioni alla maniera rabbinica, cosa questa che sarebbe coerente con il modo di essere del dottore fariseo.

          Gesù cita dunque un episodio del cammino degli israeliti nel deserto (Nm 21,4-9), che fa pensare a un totem in funzione apotropaica. Il serpente, del resto, fu conservato nel Tempio e distrutto da Ezechia in occasione della sua riforma (cf. 2Re 18,4).

          Di esso Sap 16,7 dà un’importante interpretazione: nel serpente il popolo ebbe «un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge» (symbolon echontes soterias eis anamnesin entoles nomou sou), e chi lo guardava era salvato «non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, salvatore di tutti» (Sap 16,8). Ovvero era un segno efficace della Torah, vero oggetto dello sguardo del popolo e strumento della salvezza.

          Allo stesso modo l’innalzamento del Figlio dell’uomo è il sacramento della salvezza che suscita la fede e a essa risponde. Il Figlio è quella Torah di cui avere costante memoria.

          In quanto Torah è anche giudizio – giudizio che non è esercitato da lui o dal Padre, ma dal credente stesso a seconda della posizione che intende assumere (cf. Gv 3,17). Ognuno si giudicherà da solo a seconda di dove vuole guardare e di che cosa vuole avere memoria.

          Dopo aver discusso sul nascere «di nuovo» o «dall’alto» (anothen, vv. 3.7), il mistero si scioglie, almeno in parte, al v. 31: in un breve commento il narratore ci dice che colui che viene «dall’alto» è al di sopra di tutti e non appartiene alla terra.

          Non tornerà di dove è venuto sulle nubi di una scena apocalittica, bensì in virtù di un doloroso eppure glorioso innalzamento. Lo stesso che è stato evocato all’inizio dell’episodio. Ed è proprio questo che interessa all’evangelista: se il serpente doveva indirizzare i cuori a Dio, il Figlio innalzato li consegnerà al Padre (cf. Gv 8,28, 12,32). Tra i due momenti, quello antico e questo che deve compiersi, viene stabilita una comparazione (kathos… outos), in cui il secondo termine è espresso come necessità (dei, «bisogna) e ha come soggetto non dichiarato Dio stesso, grazie al verbo passivo (upsothenai).

La posta in gioco è la vita (zoe) eterna del credente (vv. 15.16), vita eterna che è già qui, così come è presente il Figlio dato dal Padre. Egli, vivente memoria di Isacco, e a differenza di lui sacrificato, tornando a Colui che lo ha dato attirerà a sé coloro che credendo lo hanno accolto.

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