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Sintassi in tempo di guerra

Che cosa troveremo tra le macerie del conflitto russo-ucraino? Non possiamo avere risposte certe ma, rispetto ai temi che abitualmente trattiamo insieme in questo spazio, possiamo fare un esercizio di pensiero che ci aiuti a riflettere insieme.

Vorrei partire dalle considerazioni fatte da Simone Morandini, che ha opportunamente ripreso le parole di Giovanni XXIII nella Pacem in terris. Scrive il papa: “Aetate hac nostra quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda (Per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia)”.

Condividendo le considerazioni di Morandini a cui rimando, vorrei approfondire un inciso del Papa buono: quel nell’era atomica. Lo sfondo culturale è quello della guerra fredda, della Baia dei porci, del blocco di Cuba e del muro di Berlino. Alcuni punti dell’enciclica riguardano propriamente il disarmo nucleare (nn. 59 e 60), denunciando la folle corsa alla bomba e alle bombe. La tecnologia per la morte era, e rimane, quella della bomba atomica.

Ma non solo, non più. Il conflitto in Ucraina pone alla ribalta nuove questioni, nuove armi di guerra, nuove tecnologie di guerra e per la guerra. Dal sistema bancario mondiale interconnesso alle piattaforme sociali. Oggi la guerra si fa on-line, non solo perché attraverso un attacco informatico è possibile colpire il nemico (ne parlammo qui), ma soprattutto perché è l’opinione pubblica mondiale il vero teatro della guerra. E l’opinione pubblica mondiale è qui, sullo schermo del telefono.

La prima «guerra sui social media»

La condizione digitale trasforma anche le guerre, o meglio trasforma quanto alle spalle di ogni guerra è sempre esistito: l’informazione. La guerra in Ucraina – è stato detto – è la prima social media war. Non è neppure necessario portare particolari dati per comprovare l’affermazione.

In questi nuovi scenari di guerra, quali scenari di pace possiamo costruire? Se sono beati gli operatori di pace può essere la tecnologia digitale non solo a servizio di nuove forme di combattere la guerra, ma anche a servizio di nuove o antiche forme di costruire e mantenere la pace? Per rispondere dobbiamo partire dalla considerazione che la pace presuppone per essere autentica un umanesimo aperto alla trascendenza.

L’umanesimo, ossia il porre l’umano al centro, è un’istanza che la trasformazione digitale propone e talora tenta di imporre con forza. Ma è un umanesimo che rischia di essere semplice umanismo, non aperto di per sé alla trascendenza e, dunque, un umanesimo che continua ad essere esposto al rischio della guerra, che realizza opere, ma non l’opera più grande che è appunto la pace appunto. Scriveva Benedetto XVI: “È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza”.

La cultura tecnica alla base della trasformazione digitale ha esattamente molti dei connotati descritti dal papa emerito. Che cosa dunque possiamo raccogliere dalle macerie? La consapevolezza che la mutazione sociale determinata dalle tecnologie digitali è, ancora se non ancora più considerevolmente, un incompiuto spirituale. Perché vi sia pace è imperativo che la cultura tecnica, che è la cultura dominante in questo tempo, sia una cultura aperta alla trascendenza e dunque potenzialmente possa essere cultura di pace, tecnologia per la pace, per l’umano, per i suoi diritti.

L’innesto della dottrina sociale della Chiesa, che nasce nella trascendenza e in essa si alimenta, è strumento di pace eletto, sforzo di pace a cui il teologo morale si applica non solo denunciando la bruttura della guerra, ma invocando una visione della tecnologia e della tecnica foriere di pace autentica. Da dove partire o ripartire? Faccio mie le efficaci considerazioni di Byung-chul Han nel suo ultimo testo, “Le non cose”:

“Oggi corriamo dietro alle informazioni senz’approdare ad alcun sapere. Prendiamo nota di tutto senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Così le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata”.

Ciascuno di questi temi, di questi problemi, sono un buon punto di conversione personale. Trasformando l’informazione, singola, scelta, selezionata, motivo di contemplazione. Senza la pretesa che lo si possa fare con tutte, senza l’ansia di doverlo fare con un certo numero. Ma nella consapevolezza trasformativa di poterlo fare, oggi, con una soltanto. 

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione Digitale (Elledici 2019).

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