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«Sedeva presso il pozzo Gesù»

III domenica di quaresima

Es 17,3-7; Sal 94 (95); Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

Il dialogo tra Gesù e la donna samaritana, che la liturgia di questa domenica ci presenta, è uno dei più belli e complessi di tutta la narrazione evangelica. Giovanni, infatti, costruisce tutta la narrazione giocando su piani diversi che s’intrecciano mirabilmente. Gli elementi chiave sono la località, l’incontro con una donna presso un pozzo, il tempo della semina che coincide con quello della mietitura e la questione finale sul luogo in cui adorare Dio. Vediamo di comprendere questi elementi con una ricaduta sul nostro presente.

Siamo in Samaria, terra considerata scismatica in quel tempo, e Giovanni sottolinea che Gesù «doveva» passare di lì, segno che il suo ministero itinerante comporta anche la visitazione di coloro che «si sono persi», dal punto di vista giudaico del tempo, rispetto al legame istituzionale con il tempio di Gerusalemme e il resto delle tradizioni di Israele, compresa gran parte dei testi sacri.

Il pozzo di Giacobbe, nel terreno dato a Giuseppe, è un concentrato di storia biblica che va da Abramo fino a Geroboamo e alla divisione nei due regni del Nord e del Sud. In questo luogo s’intrecciano storie di alleanza e di divisione, qui una donna viene violentata e un ragazzo viene venduto, qui si divide il Regno di Davide e avviene lo scisma. Il pozzo, inoltre, evoca nei racconti dei patriarchi e dell’Esodo l’incontro tra uno «straniero» e una donna, un incontro propizio che finisce sempre con il matrimonio dei due, dove lo straniero, nel caso di Isacco e Giacobbe, si rivela essere in realtà un parente lontano.

Nella risposta di Gesù data ai discepoli c’è inoltre l’annuncio del tempo messianico così come era stato annunciato dai profeti, un tempo in cui la mietitura coincide con la semina, dove non c’è più l’intervallo dell’attesa. E, alla fine, anche lo spazio riceve una nuova qualifica, dato che viene meno il «luogo» dove adorare Dio.

Mi rendo conto che bisognerebbe fermarsi su ognuno di questi elementi per declinarli e per comprendere tutta la densità che racchiudono, ma non è questo lo «spazio» giusto per farlo. Riprendo invece quanto preannunciato all’inizio, ovvero quale ricaduta per il nostro presente possono avere gli elementi in sé e il loro intreccio insieme.

Sempre di più, oggi, il cristianesimo si presenta come una realtà separata; al di là degli scismi storici, di fatto abbiamo vari tipi e visioni di cristianesimo tra loro diversi; vi è anche una certa tensione tra «centralità» e «periferia», che sempre di più emerge nel confronto e a volte scontro tra i cammini sinodali delle nostre Chiese.

Si sente il bisogno di comunione e l’aridità di alcune realtà ecclesiali richiede una nuova vitalità, ma dall’altra parte non si sa più dove volgere lo sguardo. Resistenza al nuovo, nostalgia del vecchio, incapacità di ascolto reciproco, spesso una formazione mancante o molto lacunosa che non permette di oltrepassare muri e ostacoli sono alcuni degli aspetti che colorano oggi la nostra cristianità e non solo in ambito cattolico.

Forse anche noi avremmo bisogno di andare al pozzo per incontrare Colui che, in ascolto delle nostre aspettative e desideri, è capace di scardinarli dall’interno, facendoci capire che «un mancato matrimonio» è l’unica possibilità per riconoscere la presenza viva del Risorto, che i tempi sono maturi perché l’era messianica faccia un passo in avanti verso un’umanità riconciliata nella sua duplice o molteplice diversità (anche in tema di genere), per distaccare la nostra mente e il nostro sguardo da un «luogo» o istituzione che abbia la pretesa di essere l’unica garanzia della presenza di Dio, per riconoscere che la salvezza viene da una storia, da un popolo in cammino, in cui l’autentico dialogo tra ebraismo e cristianesimo ha la sua radice più profonda

Anche noi, forse, abbiamo bisogno di aprirci alla novità di un incontro che manda all’aria le nostre sicurezze e tradizioni, capace di aprirci alla salvezza inaspettata di uno «straniero» che non rispetta le regole di confine, che non si cura del giudizio negativo dei suoi compagni, che parla a una donna senza pregiudizi o precomprensioni, che sa sedersi a tavola con i fratelli separati; in poche parole, di Colui che è l’unico Salvatore del mondo proprio perché non incapsulabile nei nostri schemi e definizioni.

Con la consolazione di sapere, anzi di riportare alla memoria, che i nostri tempi non sono tanto diversi da quelli degli inizi, dove le prime comunità cristiane dovevano cercare di declinare la propria identità sia ad intra che ad extra, nel rispetto cioè della diversità di ogni comunità in relazione alle altre e nei confronti della realtà sociale e politica del loro tempo; tutto questo sia per riscoprire la loro audacia, sia per non ricadere negli errori dettati dalla comodità di uniformarsi alla mentalità o alle logiche di potere del tempo.

Questa è, d’altronde, anche l’unica vera possibilità di vivere la «cattolicità», che nella diversità riconosce l’unicità di Colui che salva.

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