Se un Messia crocifisso fa problema
XXV domenica del tempo ordinario
Sap 2,12.17-20; Sal 53 (54); Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
Il Vangelo di questa domenica ci presenta il cosiddetto «secondo annuncio della passione» nel racconto di Marco. Gesù sta attraversando la Galilea nel suo ultimo viaggio verso Gerusalemme e lungo il cammino, come aveva fatto precedentemente a Cesarea di Filippo, ricorda ai suoi discepoli quale sarà la sua «ultima tappa»: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Non c’è da stupirsi però che, come a Cesarea di Filippo, anche questa volta i discepoli non comprendano o forse non vogliano comprendere: «Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo». Non si limitano però solo a non comprendere o a non voler comprendere, essi discutono tra loro lungo il cammino e, arrivati a Cafarnao, Gesù, che probabilmente ha ascoltato i loro discorsi in silenzio, ne chiede ora ragione: «Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande».
Posta in questi termini la situazione risulta non solo imbarazzante, ma quasi grottesca. Gesù parla della sua prossima morte e costoro discutono su chi è più grande tra loro! Quale è il senso di questa discussione e che cosa ha a che fare con l’annuncio della passione?
Se Gesù è il Messia atteso e quanto avverrà sarà la sua manifestazione piena, sicuramente chi lo avrà riconosciuto e seguito come tale riceverà una ricompensa, una nota di merito. Ecco, pertanto, che i discepoli discutono tra loro su chi ha più meriti, su chi sarà considerato il suo più fedele discepolo. E che la discussione andrà avanti, lungo la strada verso Gerusalemme, lo si capisce dalla richiesta che in seguito i fratelli Giacomo e Giovanni faranno a Gesù di sedere uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra (Mc10,35-39).
Rimane però la questione della «passione», un particolare che i discepoli – dice Marco – non comprendono e quindi «accantonano». Interessante questo ultimo aspetto, su cui credo valga la pena soffermarsi un momento. Quello che i discepoli hanno capito è che Gesù è il Messia, e il titolo di «Figlio dell’uomo» è per loro un chiaro riferimento alla profezia di Dn 7,9-14, un testo che definisce una delle possibili caratteristiche dell’attesa messianica del tempo. Il fatto però che Gesù dica che il Figlio dell’uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini, verrà ucciso e poi dopo tre giorni risorgerà risulta per loro problematico e incomprensibile: allora forse non bisogna sempre capire tutto, forse ciò che conta è ottenere subito un beneficio da ciò che si è capito, forse il resto può essere trascurato, magari si capirà in seguito.
Il modo di agire di questi discepoli non è una rarità, anzi evidenzia un modo abbastanza comune di agire o reagire in tante situazioni. Spesso, di fronte a problemi complessi, è molto più facile e comodo prendere una «scorciatoia»: si prende in considerazione solo ciò che risulta evidente e «utile» e si tralascia di approfondire e comprendere ciò che risulta complicato e che richiede uno sforzo maggiore, magari di analisi, di studio o anche solo d’informazione. Al centro, ciò che muove, è il risultato immediato che si può ottenere lasciando perdere tutto il resto. In questo modo, però, ci si ritroverà sempre impreparati e disorientati quando quella «complessità» che era stata messa da parte si manifesterà, come è stato per i discepoli con la morte del Messia.
È Gesù stesso, allora, a rispondere alla domanda che ha posto ai suoi, di fronte al loro silenzio imbarazzato; una risposta che sembra essere non solo spiazzante, ma anche fuorviante: che cosa c’entrano i bambini? «“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”».
L’accoglienza di un bambino implica l’impossibilità di aspettarsi un qualcosa in cambio, un bambino non è infatti in grado di contraccambiare allo stesso modo. Implica che la motivazione di fondo di tale accoglienza non è dettata da un tornaconto, ma dal cuore. Ciò che muove questo gesto è qualcosa che ha a che fare con l’affetto, con l’amore; e non si ama per ricevere qualcosa, aspettandosi qualcosa; si ama e basta. Ecco l’unica possibilità di essere «il più grande»: amare e far sì che le proprie decisioni siano dettate da un’«intelligenza» affettiva, capace di entrare dentro la complessità delle questioni, non trascurando ciò che, per essere compreso, implica uno sforzo, una fatica, un approfondimento e persino ulteriori domande.