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V domenica di Pasqua

A7 9,26-31; Sal 22 (21); 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

          Giovanni non dice molto dell’ultima cena di Gesù, benché le dedichi dapprima due capitoli, poi altri tre. Non si parla di cibo o di vino, ma il racconto si apre con un breve annuncio della morte, ormai prossima, come un esodo (13,1), poi si racconta la lavanda dei piedi come gesto di amore verso i discepoli (13,4ss), esortandoli a fare lo stesso come un incarico peculiare, si annuncia il tradimento di Giuda, ma tutto – lavanda dei piedi a parte – pare poco più che un pretesto per il discorso d’addio (Gv 13,31-14,31).

          La conclusione del c. 14 è lapidaria. Ci si aspetterebbe quindi, subito dopo, che tutti uscissero e seguisse il racconto del Getsemani e poi della passione, invece tutti partono solo in 18,1. L’azione subisce un’imprevista battuta d’arresto. Il discorso d’addio continua (Gv 15-16) per poi essere seguito da una preghiera (Gv 17).

          Sembrerebbe così che il racconto dei fatti manchi di coerenza. I richiami interni però, lessicali e non solo, le ripetizioni e le riprese fanno pensare a diverse redazioni dello stesso discorso d’addio, poi recuperate e risistemate dal redattore finale per non perdere nulla (Wengst).

          Troviamo dunque l’immagine della vite: una lunga metafora a mezza strada tra la parabola e l’allegoria. Non è dato capire quale ne sia la causa immediata (nella cena non è stato neppure nominato il vino), e quanto al simbolismo della vite nel Primo Testamento, non è sempre positivo.

          L’affermazione d’apertura di Gesù però è perentoria: comporta la formula di autorivelazione tipica di Giovanni che rimanda a Es 3,14 (LXX) e che è ripresa al v. 5. Ugualmente viene nominato il Padre (o pater mou) in apertura e in chiusura (v. 1 e v. 8). L’opera del Padre, protagonista di questi pochi versetti, consiste nel far fruttificare la vite, ovvero fare in modo che gli apostoli portino frutto (karpon pherein è tipico di Giovanni, cf. 12,24, 15,2 tre volte, 15,4; Matteo invece ha «fare» e Marco «dare»), anzi «molto frutto» (karpon polun, 15,5.8).

          Merita attenzione il v. 5, in cui il «molto frutto» è in relazione a una formula di reciproca appartenenza (o menon en emoi kago en auto), ricalcata su formule analoghe del Primo Testamento (cf. per es. Ger 7,23; Ez 11,20, 36,28).

          Chi porta molto frutto accede al discepolato (v. 8), che quindi è l’esito della pazienza e del lungo lavoro del Padre-contadino e di una reciproca appartenenza rispetto al Figlio-vite.

          Il lavoro del Padre-contadino viene descritto con alcuni dettagli, come la potatura che – sappiamo – avviene in due tempi dell’anno: quella invernale elimina i rami improduttivi, quella primaverile/estiva elimina i pampini in eccesso che tolgono alimento alla vite non lasciando crescere i grappoli e con le loro foglie impediscono al sole di raggiungerli. Non a caso nella lingua popolare sono denominati «succhioni» e sono considerati parassiti. La vite inoltre ha bisogno di appoggiarsi o a un muro o a un palo o a un’altra pianta e a quel punto il contadino deve legarla tenendo conto appunto dei pampini fruttiferi.

          Va da sé che un tralcio non può opporsi alla potatura, così come non può staccarsi volontariamente dalla vite: ne viene reciso se non porta frutto o potato perché renda di più, tuttavia il testo insiste sul «rimanere» (menein), che comporta una decisione e sollecita una perseveranza. «Rimanere» non è solo «restare», ma significa anche «comunicare», permettendo alla linfa che scorre nella vite di raggiungere i singoli tralci. Ugualmente come i tralci appartengono alla vite si appartengono gli uni agli altri, condividendo la stessa linfa e lo stesso destino. Il loro legame reciproco è vitale e inscindibile.

          Il contadino toglie (airein) il tralcio sterile e pota (kathairein) quello fecondo (15,2). Chi si lascia potare (kathairein) è «mondo» (katharos/katharoi, Gv 13,10): ha già fatto il bagno e deve lavare solo mani e piedi come i sacerdoti nel Tempio durante il servizio (cf. M. MenaHot 1,2).

          Come si è detto, in questi capitoli molti sono i rimandi interni: a volte sono assonanze, a volte paiono giochi di parole, ma attestano l’abilità compositiva del redattore e rendono tanto più capace il testo di catturare la nostra attenzione.

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