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Sale della terra, luce del mondo

V domenica del tempo ordinario

Is 58,7-10; Sal 111 (112); 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

Gli elementi principali del Vangelo di questa domenica sono «sale» e «luce». Sia dell’uno che dell’altra si ha bisogno, ma nello stesso tempo non ne serve una quantità enorme. Infatti, come lo stesso testo evangelico dice, il sale serve per dare sapore, e per questo ne basta poco. Ugualmente l’illuminazione che una lampada produce è superiore alla sua dimensione. Compresa questa ovvietà, cerchiamo di cogliere il senso di quanto Gesù dice ai suoi discepoli.

La prima cosa che salta agli occhi è proprio la questione della quantità e grandezza. In un certo senso Gesù sta dicendo che i suoi discepoli non devono essere tanti, che il numero non conta, conta invece il «sapore» e la «luce» che emettono. Se contestualizziamo il discorso storicamente, risulta che il gruppo dei discepoli di Gesù era di gran lunga inferiore a quello dei discepoli di Giovanni il Battista e che, comunque, il movimento gesuano ai suoi primi inizi non s’imponeva certo per la quantità di persone che vi aderivano.

Anche se sono passati più di duemila anni, credo che queste parole siano ancora molto attuali, dato che anche oggi il numero fa il suo effetto. Nella Chiesa non è difficile sentire discorsi e valutazioni che guardano più al numero dei partecipanti che alla qualità delle iniziative o delle attività che si svolgono. Anzi il problema del «numero» si sta presentando ancora più forte se si pensa alle chiese sempre più vuote, alla diminuzione dei seminaristi e delle vocazioni in genere. Segno che forse non abbiamo capito cosa fa davvero il «sale», o forse non siamo ancora «sale».

Non solo, o ancora peggio, la domanda evangelica è: «Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?» C’è una correlazione che bisogna evidenziare tra «sale» e «sapore». L’espressione «perde sapore» nel testo originale, cioè in greco, deriva da un verbo che significa «essere stupido, senza senso». «Essere sale» allora significa avere senso, saper trovare o indicare il senso, nel nostro caso, dell’esistenza, della realtà. Il problema, allora, non è la mancanza di numeri, ma la mancanza di «sale», che si manifesta proprio, ad esempio, in questa preoccupazione dei numeri, più che della capacità di dare senso o di essere preparati, formati a questo.

Un esempio concreto è la chiusura sempre più in vasta scala, e mi limito al territorio italiano, di luoghi di formazione accademica in campo teologico, proprio con la motivazione della mancanza di «numeri». In questo modo si chiudono accessi al «sapere», ovvero alla possibilità di attingere sapore, solo perché mancano i «numeri». Certo, se per «numeri» s’intende una certa categoria di persone a cui in passato quel sapere era destinato, tutto questo può risultare inevitabile; ma è questa l’unica strada percorribile, è questo il «senso» che bisogna perseguire? La stessa domanda ce la possiamo porre riguardo alla chiusura di tante case religiose, un tempo luoghi di vita, di cultura e di attività sociali utili per tutti. 

Ritorniamo al tema della luce. Si è detto che la quantità di luce non è proporzionale alla grandezza del lume, ma piuttosto alla sua intensità, alla sua potenza, e potremmo dire – permettetemi questa sinestesia – al suo sapore. L’invito di Gesù è «essere luce del mondo», non essere il mondo o dominare il mondo e neppure essere potenti o numerosi di fronte al mondo, ma semplicemente essere luce. La luce di una lampada, di qualcosa che può essere anche piccolo, ma che è capace di illuminare.

Illuminare che cosa? E qui viene il bello: «le vostre opere buone». La luce di queste opere buone, poi, viene vista «dagli uomini» che così rendono «gloria al Padre vostro che è nei cieli». «Opere buone», che hanno «sapore», che offrono senso, che risplendono. E per tutto questo non occorrono «numeri» e neanche strutture «autoglorificanti» o «autoriflettenti», ma il desiderio, la consapevolezza, la libertà di chi sa e vuole essere lume e non luce, sale e non pietanza. Forse quello di cui si ha bisogno è proprio di questo sguardo «sapiente», si potrebbe dire «salato», per evitare quella «fine» che le stesse parole evangeliche descrivono: «a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente».

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