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Ridefinire l’etica teologica

«Come il chimico professionista traccia i diagrammi artificiali di una molecola, così l’eticista definisce le parti che compongono un evento morale per capire la relazione di quelle parti fra loro e con il tutto».

Similitudine tanto inconsueta quanto potente di un teologo moralista contemporaneo, che traggo da un suo – direi – audace libro già in circolazione da qualche anno in lingua inglese, e ora finalmente anche disponibile per il lettore italiano: l’eticista come il chimico, lo studio delle cose del mondo che interagiscono tra loro (chimica) come lo studio dei fenomeni morali del mondo dell’uomo (etica), la consapevolezza che le cose del mondo non sono separabili ma distinguibili come anche quello che, con una bella intuizione linguistica, questo autore chiama e-vento, preferendolo ad atto per indicare che quello che sembra un punto è, in verità, un fascio di punti la cui posizione può determinare, a seconda della direzione delle linee che li uniscono, il disegno finale tipico di un gioco dell’enigmistica. 

Un’esperienza di «universalismo provinciale»

La similitudine del nostro autore mi sembra molto utile se penso a un consesso di teologi moralisti a cui ho partecipato, nel quale si discuteva della possibilità di cominciare a imboccare vie alternative al «semper et pro semper» di certi giudizi morali perché, secondo la sensibilità odierna, essi sono viziati di un certo razionalismo e fisicismo naturalista.

In quell’occasione qualche domanda peregrina ha costretto i presenti a rivedere alcune affermazioni buttate lì, forse con la speranza che nessuno ne chiedesse conto e ragione, del tipo:

a) operare una ricognizione più ampia dell’atto morale. Eureka! Cioè?

b) Porre maggiore attenzione ai contesti esistenziali e socio-culturali dell’agire umano. Èureka! Cioè?

c) Sgonfiare l’enfasi normativa. Èureka! Cioè?

d) Insistere sull’inserimento della norma all’interno del processo decisionale della persona. Èureka! Cioè?

I «cioè» non sono la negazione di questa bella impresa, ma una denuncia di una mancanza di affondi, che se presi in carico non possono che esigere l’elaborazione di una chiara teoria morale generale.

Una chiara teoria morale generale

Parlo di una possibilità feconda dell’etica, che forse nessuno nega dichiaratamente, ma che per ciò che richiede forse nessuno è disposto a frequentarla fino in fondo e con coerenza ferrea.

Parlo della possibilità che l’etica ha di concepire, fondare, strutturare e articolare un’etica normativa capace di esprimersi in termini di giudizio nei confronti delle azioni distinte dagli agenti grazie a una batteria di strumenti metodologici che, una volta stabilito in che cosa consista una «disposizione morale di fondo» (opzione fondamentale moralmente determinata, virtù, atteggiamento moralmente buono, tutte espressioni analoghe), si concentrano sulla distinzione e individuazione delle «cose» ordinate a rendere evidente tale disposizione (opzioni comportamentali, mezzi, azioni).

L’unità inseparabile della persona che agisce e dell’agire che dice la persona dalla lente d’ingrandimento della riflessione etico-normativa appare come un insieme di componenti che vengono interpellate individualmente.

Se non fosse possibile ciò, l’esito potrebbe essere o la fuga dell’etica verso l’alto, in cui orbitano ambiti di ricerca come quelli della natura dell’uomo (antropologia, legge naturale, Ratio, prospettiva metafisica), oppure verso il basso, in cui alcune espressioni apparentemente chiarificatrici come: «alla fine sta alla coscienza decidere», «in questi casi quello che conta di più è il soggetto», «i principi ci sono, poi vanno considerate le eccezioni», non lo sono affatto visto che la complessità delle situazioni chiede tutto fuorché un’aggiunta di perplessità.

Un accordo di metodo pur nel disaccordo di soluzioni

L’obiettivo è arrivare a un accordo non nel senso di un’unanimità delle soluzioni sui vari contesti, ma sul metodo, ovvero sul modo in cui perveniamo al giudizio morale sulle azioni, e io aggiungerei: una volta distinto quest’ultimo dal giudizio morale sull’atteggiamento.

L’audacia del testo da cui ho tratto la citazione iniziale sta proprio nell’insistenza del metodo, nelle tantissime pagine a esso esplicitamente dedicate (cosa che quasi nessuno che scrive di teologia morale fa in maniera così manifesta). E ciò non può che fare bene a tutta l’etica teologica!

Tuttavia un appunto critico va fatto nella direzione di un maggiore approfondimento da parte di tutta la comunità dei teologi moralisti, ai quali faccio un appello interrogante: quando si denuncia che l’unico metodo dominante della tradizione teologico-morale è stato quello sul «comportamento», con la conseguenza di avere trascurato ciò che oggi la cosiddetta «etica delle virtù» cerca di recuperare, si centra il punto per evitare quella fuga «di-sperata» (verso l’alto) e «perplessa» (verso il basso)?

Oppure, rimanendo sempre concentrati sul comportamento, esisterebbe solo un metodo per trovare le norme a esso riferite (intrinsece malum!)?

E se, invece, esistesse una via alternativa che non necessariamente ha bisogno di riferirsi ai fini della vita etica scomodando le virtù? 

Nel cuore di accordo e disaccordo

L’etica normativa ha certamente bisogno di essere combinata con la disposizione di fondo della persona umana per assolvere al suo compito, ma la combinazione va distinta dalla confusione, altrimenti continueremo a chiederci: se una cattiva intenzione può inficiare un’azione altresì buona, perché una buona intenzione sembra ci faccia naufragare nel soggettivismo/relativismo se da sola legittimasse un’azione altresì cattiva?

Non si risolvono i problemi invertendo la direzione dall’oggetto al fine passando per le circostanze (oggetto, circostanze, fine / fine, circostanze, oggetto: questa distinzione ci ricorda qualcosa?) fino a quando non si ha chiaro se stiamo parlando di bontà dell’atteggiamento o di correttezza dell’azione.

 

Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia e l’Istituto di studi bioetici S. Privitera. Tra le sue opere Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015). Morale autonoma in contesto cristiano (2021). Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).

Commenti

  • 17/03/2023 Luca Novara

    Riprendo una domanda posta nel consesso citato: su che cosa siamo d’accordo? E su cosa siamo in disaccordo? Avverto la sensibilità analitica nel porre le questioni e il richiamo alla necessità di una teoria morale generale, ma ciò richiede preliminarmente un’analisi antropologica, richiede di focalizzare l’esistente umano che pone l’interrogativo morale. Il compimento del giudizio nella norma passa da una considerazione olistica, unitotale dell’esistente umano: il livello epistemico proprio dell’etica normativa non prescinde dagli altri livelli del quadrifoglio (Privitera) e poi l’analisi va compiuta sull’intero “spettro” della cultura che affetta la coscienza del soggetto. La necessità lucida di distinguere tra atteggiamento e comportamento si muove nella giusta direzione per il raggiungimento del giudizio morale ma, una volta raggiunto, la riflessione moralteologica ha espresso la sua pienezza? E’ necessaria una teoria morale che superi l’astrazione che proviene dalla giustapposizione tra natura e ratio, come se per esempio la natura coincidesse con la chiarezza univoca del concetto, dimenticando l’erlebnis dell’esperienza. Il metodo analitico è a rischio di estrinsecismo… Per esplicitare meglio il mio pensiero su una possibile teoria della moralità ripresento qui un paragrafo di un mio articolo pubblicato su Synaxis 1/2023, dedicato al fenomeno degli abusi ma che contiene una teoria generale: “Una moralità astratta? Così prende corpo l’ipotesi che i dubbi sull’efficacia formativa dei corsi di morale sessuale siano alimentati dalla stessa obiezione che frequentemente viene rivolta alla riflessione teologica e al pensiero ecclesiale in generale: la distanza dalla realtà concreta della vita umana personale e sociale. Papa Francesco, nella recente Costituzione Apostolica Veritatis gaudium sul rinnovamento degli studi ecclesiastici, ha sottolineato come il magistero del Concilio Vaticano II ha dato impulso al superamento delle dicotomie che permangono tra teologia e pastorale, tra fede e vita umana, richiamando anche il magistero dei pontefici precedenti e del suo predecessore: "Come ho avuto occasione di sottolineare, uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare il divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente […]. Papa Benedetto XVI ha illustrato la necessità impellente di «vivere e orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione», sottolineando che Dio vuole associare l’umanità a quell’ineffabile mistero di comunione che è la SS.ma Trinità, di cui la Chiesa è in Cristo Gesù segno e strumento. Per raggiungere realisticamente questo scopo, egli invita a «dilatare la ragione» per renderla capace di conoscere e orientare le imponenti nuove dinamiche che travagliano la famiglia umana, animandole nella prospettiva di quella civiltà dell’amore il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura e facendo «interagire i diversi livelli del sapere umano»: quello teologico e quello filosofico, quello sociale e quello scientifico" (Veritatis gaudium 2) . Per cui, al netto di pregiudizi e luoghi comuni, sembra che l’obiezione sollevi un problema oggettivo, poiché si riscontra nella comunicazione e nel pensiero ecclesiale un debito ancora eccessivo verso spessori simbolici e categorie ormai inattuali rispetto alle consapevolezze presenti e diffuse. E non è solo una questione di aggiornamento dei linguaggi ma sembra che non riceva la dovuta considerazione il focus antropologico primario, cioè la struttura originariamente storica e relazionale dell’umano e che quindi non ci sia una ricerca robusta di sviluppi diversi rispetto alla visione tradizionalmente oggettivistica e naturalistica dell’umano, identificabile anche con l’espressione “antropologia delle facoltà”, ampiamente alimentata dalla tradizione recepta ma probabilmente ormai divenuta inattuale per le nuove consapevolezze raggiunte dagli abitanti del villaggio globale e digitale, bisognosi di un'attuazione di sè in un ampio orizzonte pieno di buone pratiche narrative e transitive , proponendosi così di tematizzare una più promettente “antropologia della libertà”, radicata nella relazione biunivoca tra la dimensione antropologica e quella teologica definitivamente generata dall’Incarnazione, in grado di condurre a consapevolezza sensibile il darsi di Dio nella piena realizzazione della libertà umana. Si prospetta quindi la possibilità di ripensare il concetto di natura umana secondo un nuovo paradigma che ne illustri il debito rispetto all’esperienza e alla storia e in cui la dimensione ontologica è declinata nella direzione fenomenologica ed ermeneutica, in modo da generare un modello antropologico nel quale la natura è intesa in termini di passività originaria (spazio-tempo-mondo, nascita, corpo, socialità, cultura) che in-forma la coscienza (morale). Tale paradigma prospetta l’accesso all’universale specificamente attraverso il particolare, l’universale antropologico è “visibile” sempre in forme storiche concrete, pratiche, in rapporto costitutivo con le esperienze primarie che “affettano” la coscienza. Di conseguenza, ciò indica la necessità di uno sviluppo umano compiuto, perchè la possibilità stessa che l’Annuncio evangelico dispieghi in pieno le sue energie di significato e di valore è strettamente legata al contenitore antropologico, a uno spazio cioè di plausibilità e di ragionevolezza pratica in cui si gioca il realismo della verità cristiana, visibile nel dinamismo delle forme dell’esperienza pratica. E’ in gioco la riforma di una prospettiva metafisica che radica l’imperativo morale in una concezione di natura umana segnata da biologismo ed essenzialismo, tipica della teologia morale post-tridentina che supponeva l’impianto teorico di una antropologia essenzialista dalla quale dedurre la norma, operazione esemplificata dall’assioma agere sequitur esse: "La questione del biologismo o naturalismo fisicista ritorna (TB 85), dove si afferma che la forma argomentativa della tradizionale theologia moralis non si sottrae dal limite di un certo razionalismo astratto e di un fisicismo naturalista, che richiama i principi operativi dall’autoevidenza dei propri asserti fondamentali e dalla considerazione prevalente del dato biologico come criterio di identificazione più del malum vitandum che del bonum faciendum. L’idea implicita nel testo citato è che l’intellettualismo e il fisicismo naturalista, per quanto possano apparire opposti, in realtà condividono il medesimo presupposto, che consiste nella giustapposizione di natura e ratio: intellettualismo e fisicismo oscillano infatti tra una ragione senza natura, perché la lex (naturae), almeno nei suoi assunti fondamentali, è conosciuta dalla ragione in modo innato, e una natura senza ragione, perché la natura che diventa legge finisce per identificarsi con il dato biologico. Per quanto siano questioni differenti, l’essenzialismo e il biologismo sono fondati sul medesimo assunto ( M. CHIODI, “La generazione: responsabilità dinanzi al dono”, in V. PAGLIA (cur), Atti del Seminario di studio promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita, Etica teologica della vita, Scrittura, tradizione, sfide pratiche, LEV, Città del Vaticano 2022, 318-319). Inoltre, si pone l’interrogativo su quali possibilità effettive la teologia morale ha avuto, fin dalle sue origini, di incidere effettivamente sulle consapevolezze profonde della persona umana. Sembra infatti che la distanza della disciplina dalle circostanze del vivere umano abbia radici lontane, riferibili sia alla qualità dei contenuti della propria tradizione dottrinale, sia alla qualità dell'esperienza morale occidentale in genere. Infatti, per ciò che concerne lo sviluppo storico dei contenuti relativi, è noto come la riflessione teologica specifica ha raggiunto una identità propria solo in epoca moderna, nei primi decenni del Seicento, al fine di applicare concretamente quanto disposto dal Concilio di Trento sulle competenze dei confessori per il ministero della penitenza, sul discernimento dei peccati e sulla loro gravità: "Il capitolo della teologia scolastica, che si occupava di argomenti morali nella forma del commento alla secunda pars della Summa di san Tommaso, fu senz'altro cancellato; l'interesse della teologia per il tema morale rimase assegnata alla competenza esclusiva della casistica. Il cursus casuum conscientiae viene presto ribattezzato come theologia moralis. L'interesse della disciplina rimase però concentrato su un obiettivo parziale, com'è appunto quello di precisare i confini tra il lecito e l'illecito ( G. ANGELINI, Teologia morale fondamentale, Glossa, Milano 1999, X) . Di conseguenza, praticamente fino alla metà del ventesimo secolo, questa disciplina ha sofferto di un rilevante difetto di spessore teorico costituito dall’assenza di una trattazione di carattere fondamentale in grado di generare un’intelligenza cristiana dei significati dell’agire, sicchè la sua articolazione, considerata minoritaria rispetto alla dogmatica, è stata prevalentemente rivolta all’istruzione del soggetto agente in rapporto a una natura considerata in linea di massima immutabile, senza considerare le caratteristiche essenzialmente evolutive dell’esperienza morale, focalizzando così la coscienza e la libertà della persona come entità astratte, sussistenti in sé, fuori dall’hic et nunc in cui sempre il soggetto personale si ritrova a vivere e operare, con una considerazione generale dell’humanum contenuta nella già accennata espressione “antropologia delle facoltà”: In questo, due sono i tipi fondamentali dell’argomentazione: il primo si rifà al tema della ”natura”, cadendo nel “naturalismo”, e il secondo ricorre all’argomento del fine dell’agire. L’uno e l’altro eludono l’Erlebnis cioè l’evidenza dell’esperienza concreta. Le morali naturalistiche, da Aristotele e Tommaso fino al magistero morale dei pontefici, occultano l’esperienza oggettivando la natura e riducendola alla chiarezza univoca del concetto. Così esse trascurano sia il vissuto emozionale dell’esperienza sia il rapporto intersoggettivo che invece determina la nostra identità . D’altro canto, è stata anche molto chiara la richiesta del Concilio Ecumenico Vaticano II di fulcrare maggiormente la teologia morale nelle Scritture, indicando così la necessità di una maggiore focalizzazione del contenitore storico e civile, evitando una possibile sfumatura astratta e poco incisiva: Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, più nutrita della dottrina della sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo (Optatam totius, n. 16). E’ altrettanto chiaro l’insegnamento del Concilio quando indica la centralità antropologica della dimensione sociale: Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue capacità e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli. Tra i vincoli sociali che sono necessari al perfezionamento dell’uomo, alcuni, come la famiglia e la comunità politica, sono più immediatamente rispondenti alla sua natura intima (Gaudium et spes, 25). Si può ricordare qui, come esemplificazione generale di orizzonti e di metodo, la figura e l’opera del cardinale Carlo Maria Martini, insigne biblista, che nella sua attività pastorale ha sempre privilegiato la promozione del dialogo con la società civile e con i non credenti, l'approfondimento del rapporto indissolubile tra fede, giustizia, cultura e un'ermeneutica delle Scritture in sinergia con altre discipline come la spiritualità e le scienze sociali, mostrando così quanto sia fondata l'affermazione del rabbino e filosofo ebreo Abraham Heschel: «La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio» . Si richiede quindi una diversa considerazione del soggetto umano e della sua capacità sia di conoscere che di vivere, rivalutando la più sorgiva dimensione antropologica, l’evidenza concreta dell’esperienza sociale e relazionale, vissuta nell’inestirpabile dimensione dell’intersoggettività. La teoria e il metodo fenomenologico e narrativo consentono di raggiungere un concetto più adeguato di identità umana, mostrato nella mediazione originale dell’esperienza pratica e relazionale, nella cui apertura oscillano la vitalità interiore e le inclinazioni sensibili in rapporto alla volontà, indicando così il dinamismo sociale e narrativo dell’esperienza morale: "Anche lo stesso Tommaso, tra i diversi modelli che propone per articolare il rapporto tra [...] le inclinazioni spontanee o "naturali" (appetitus sensitivi) e il volere (appetitus rationis), indica [...] il ruolo svolto dall'esperienza. Si può quindi notare una convergenza con quanto attestato dalla fenomenologia, secondo cui la coscienza umana non può essere pensata a monte delle esperienze sensibili nè in termini di soli contenuti concettuali: il soggetto non accede alla coscienza del bene e del male e, insieme alla coscienza di sè, se non richiamandosi alle forme dell'esperienza passivamente vissuta da cui è "affetto" (C. CASALONE, “Legge morale naturale. Oltre l’opposizione natura-cultura”, Aggiornamenti sociali 59 (2008/2) 101) . La relazione è il pilastro generativo della persona: ciascun uomo infatti nelle fasi primarie della gestazione e della nascita “si riceve” da altri, accadendo in un punto dello spazio-tempo, “accorgendosi di esserci” ed entrando nella rete dell’ethos, dove può rimanere in vita e svilupparsi in tutte le sue dimensioni solo se è oggetto di una cura prossemica e benevolente da parte dei genitori o di altri soggetti, costituendosi così in uno stato di attesa e di promessa nei confronti degli altri ed è costituito per sempre figlio. Il tessuto delle relazioni sociali sorgive e benevolenti assume il ruolo di edificazione primaria, costitutiva della persona, generativa della consapevolezza di un significato donato e di un’attesa che si svela come promessa di bene e di appello pro-esistente fecondo e buono, consapevole, generativo di una fiducia possente nella vita stessa: Nessuna vita umana è riducibile a pura sopravvivenza, a «nuda vita», secondo la celebre espressione di Walter Benjamin. C’è sempre un punto in cui essa sporge oltre i bisogni primari, accedendo all’ambito dei desideri e delle scelte, delle passioni e dei progetti. Essendo fin da sempre istituita, la vita umana non coincide mai con la semplice materia biologica. Anche quando è schiacciata, dalla natura o dalla storia, sulla sua falda più dura. […] A conferirle questa qualifica è la sua appartenenza a un contesto storico fatto di relazioni sociali, politiche, culturali. Ciò che fin dall’inizio ci costituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è la rete di rapporti nella quale ciò che facciamo acquista rilievo per noi, ma anche per gli altri (R. ESPOSITO, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021, 9). Così la prassi elementare dell'essere stati beneficati dalla sollecitudine e dalla cura empatica di altri, soprattutto nelle fasi iniziali della vita personale, facilita il riconoscimento dell'affidabilità e della bontà della realtà intera, generando così l'affidarsi come forma della libertà. In questa direzione, anche il concetto di legge naturale rimanda a questa germinale esperienza di bene che il soggetto può aver vissuto avendola ricevuta, dandogli così la possibilità di acquisire la sua libertà nella forma dell’affidarsi. Risiede anche qui il motivo di fondo della sensibilità cristiana per la centralità di nuclei generativi come la coppia, la procreazione, la maternità e paternità responsabili, ambiti tutti in cui l’intensità della cura e della prossimità benevolente possono raggiungere il loro parossismo .

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