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«Più di tutti gli altri»

XXXII domenica del tempo ordinario

1Re 17,10-16; Sal 145 (146); Eb 9,24-28; Mc 12,38-44 

         Una possibile riflessione che il Vangelo di questa domenica ci propone è la differenza che c’è tra il Tempio e le persone che lo frequentano a vario titolo. Ma prima di andare avanti forse è importante ricordare che cosa era il Tempio in quel tempo per Gesù e per il suo popolo.

         Il Tempio era prima di tutto la «dimora» del Signore, la manifestazione visibile della sua presenza in mezzo al suo popolo. E, proprio per questo, il Tempio era la «casa di preghiera», il luogo d’incontro, dove ogni ebreo era chiamato a entrare, a pregare e ad adempiere i sacrifici prescritti che abbracciavano le varie tappe e circostanze della vita.

         Come i Vangeli ci raccontano, infatti, Maria e Giuseppe si recano al Tempio per la nascita di Gesù, dopo l’ottavo giorno; di nuovo per il suo bar mitzwa, una volta divenuto adolescente; e lo stesso Gesù, una volta adulto, continuerà a recarsi al Tempio per le feste di pellegrinaggio e in altre occasioni; la stessa cosa continueranno a fare i suoi discepoli anche dopo la sua morte e risurrezione.

         Oltre a essere, quindi, il centro della fede ebraica, il Tempio era anche l’emblema dell’unità del popolo ebraico, rappresentava la sua autonomia e identità e garantiva un minimo di indipendenza sotto il dominio romano; un’indipendenza di carattere religioso ma anche, per alcuni aspetti, giuridico ed economico.

         All’interno del Tempio vi erano varie figure «operative»: i leviti, che a turno garantivano il servizio liturgico e sacrificale, gli scribi che si dedicavano a quello che oggi potremmo definire la riflessione teologica, e il Sinedrio con il sommo sacerdote che era l’autorità suprema. Vi era quindi un’organizzazione umana con divisione di compiti e di ruoli, ma, dall’altra parte, il Tempio era la casa di tutti, proprio perché era prima di tutto e fondamentalmente la «casa» di Dio.

         Oggi il Tempio non c’è più, ma se guardiamo all’organizzazione della nostra Chiesa cattolica troviamo che alcune di quelle strutture sono state «ricostruite» a immagine e somiglianza. San Pietro rappresenta il centro della Chiesa universale e la Città del Vaticano ha una propria banca, un proprio codice civile e penale; così anche il sommo pontefice ha un proprio consiglio permanente e schiere di cardinali, vescovi, monsignori sono parte attiva di tutto questo organismo istituzionale. Anche riguardo alle donazioni l’offerta al Tempio richiama l’obolo di San Pietro, un sistema di raccolta delle offerte da parte di tutti i fedeli nel mondo, ancora oggi in vigore.

         Inoltre la critica che Gesù fa guardando alcuni degli scribi del suo tempo, proprio stando nel Tempio − «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti» − ricorda immagini non del tutto dissimili di alcuni porporati o di rappresentanti del clero a vario titolo verso i quali più volte papa Francesco ha lanciato un’invettiva simile. Questo solo per dire quanto il Vangelo sia ancora attuale e quanto parli ai credenti di oggi.

         Ma la realtà è sempre complessa e tra le ombre più scure vi sono anche delle luci che permangono e, nel nostro caso, confermano che è l’autenticità del singolo ciò che conta agli occhi di Dio, e che rende possibile e vitale ciò che altrimenti sarebbe solo distruzione e morte.

         Mi riferisco alla seconda parte del racconto evangelico. Gesù, sempre nel Tempio, osserva la gente che si reca a portare le proprie offerte al Tempio: «Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”». C’è una seconda «gerarchia» − questa volta capovolta − di appartenenza alla «casa del Signore» che non è data da ruoli, incarichi, poteri o insegne, ma solo unicamente dal cuore, da quell’affectum che muove una persona al dono totale di sé per ciò, o per Colui, che ama.

         Nell’insegnamento di Gesù c’è questa verità, antica e sempre nuova, che indica ciò che sempre permane e tiene in vita la fede dei credenti. Per esprimerla, in altro modo, vorrei usare le parole di un grande teologo, Karl Rahner, che alla domanda «Il papa è il più alto rappresentante della cristianità?» aveva risposto: «Penso che si debba fare una distinzione. Rispetto a determinate strutture giuridiche nella Chiesa il papa è il più alto rappresentante della Chiesa e, se vuole, del cristianesimo cattolico. Ma vorrei dire, colui che nella Chiesa è il più umile, il più amante e, usando un’espressione antiquata, il più santo, e probabilmente del tutto sconosciuto, costui, e non il papa, si trova sulla vetta della gerarchia, della vera gerarchia, per la quale la Chiesa è solo un mezzo. […] il più alto rappresentante all’interno dell’ordinamento sociale della Chiesa non è necessariamente il più alto rappresentante della realtà per cui la Chiesa esiste, cioè perché Dio sia adorato, onorato, amato e perché gli uomini si amino e siano altruisti. In questo senso i veri rappresentanti della Chiesa sono i santi. Innocenzo III era il papa e Francesco di Assisi era, nella gerarchia che veramente conta, il più alto» (K. Rahner, Ricordi, ADP, Roma 2002).

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