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Nell’attesa di «colui che viene»

III domenica di Avvento

Sof 3,14-17; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

Nel Vangelo di questa domenica troviamo una risposta articolata di Giovanni Battista alla domanda: «che Cosa possiamo fare?». Ovviamente tale domanda scaturisce dall’invito insistente che Giovanni, percorrendo «tutta la regione del Giordano» (Lc 3,3), rivolge ai suoi uditori: l’invito a «preparare la via al Signore» attraverso un «battesimo di conversione per il perdono dei peccati». Ed è proprio questo contesto che ci aiuta a collocare meglio la risposta che Giovanni dà.

Si tratta da una parte di un’azione che esprime una conversione, e dall’altra di un’azione che è un «preparare» l’avvento del Signore. Vediamo allora queste risposte.

La prima è: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». La conversione non è solo un qualcosa di spirituale, ma anche materiale, implica una qualità di vita che sappia distinguere ciò che è necessario ed essenziale e che sia all’insegna della condivisione.

La vera condivisione – insegna il Battista – non consiste nel dare ciò che è superfluo o che si ha in abbondanza, ma nel dividere ciò che si ha, sia esso poco o molto. Due tuniche non sono certamente un guardaroba, magari con abiti che non si usano più e di cui ci si può disfare per far spazio ad altri più nuovi. E così anche nell’invito a condividere il cibo, non viene detto di farlo con ciò che si ha in abbondanza, ma semplicemente con ciò che si ha giornalmente. Dietro a tale invito risuonano le parole del Deuteronomio: «Perché nessuno in Israele si trovi nel bisogno» (Dt 15,4).

La seconda risposta è rivolta a una categoria ben precisa di persone: i pubblicani. Costoro, appartenenti al popolo ebraico, erano degli esattori di tasse per conto dei romani o del reggente di turno. In quel tempo il sistema fiscale era pro capite (letteralmente per ogni testa), per cui i romani avevano bisogno di persone del popolo che conoscessero i propri compaesani e che quindi potessero raccogliere le tasse dovute all’Impero senza che nessuno potesse sfuggire al conto o evadere il tributo.

Il problema però non verte sulla moralità o meno del loro mestiere –qualcuno doveva pur farlo –, ma su una modalità dell’esercizio di questo, ancora oggi molto diffusa, che è l’abuso di potere; nel caso particolare, per esempio, si tratta della possibilità di esigere più del dovuto come «cresta», ottenendo così a fine giornata o a fine mese un surplus di guadagno personale. Tutto questo oggi noi lo chiamiamo «corruzione» o abuso di potere di un pubblico ufficiale ai danni del privato cittadino.

La terza risposta è invece indirizzata a dei soldati, probabilmente dei mercenari assoldati da Erode Antipa, che estendeva il suo dominio non solo sulla Galilea, ma anche sulla Perea. Anche per costoro l’invito è a non abusare del loro potere e delle loro armi, utilizzate come minaccia per ottenere dal popolo quanto non è loro dovuto: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

Risposte concrete a situazioni altrettanto concrete che riassumono un’etica della giusta acquisizione e del buon uso dei beni, questioni e realtà che sono ancora oggi all’ordine del giorno non solo nei paesi dove la povertà è maggiormente diffusa, ma anche in quelli «evoluti», dove l’equità sociale sembra essere ancora una meta da conquistare e in cui le distanze anziché accorciarsi, ultimamente, aumentano sempre di più.

Un particolare importante è che, contrariamente a quanto pensano gli uditori di Giovanni, la sua predicazione, come il suo battesimo di conversione, non sono il segno che il Messia sia venuto, ma semplicemente la preparazione alla sua venuta. In qualche modo, nella predicazione del Battista, la dimensione etica precede la dimensione spirituale: l’incontro con il Messia avrà qualcosa di definitivo e risolutivo allo stesso tempo: «[il Messia] Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Sappiamo, però, che di fatto non è stato così, dato che il ministero messianico di Gesù si realizzerà proprio in mezzo a queste contraddizioni, non eliminando la zizzania dal grano (Mt 13,30) e sedendo alla stessa mensa con pubblicani e peccatori. Non è l’osservanza di un’etica che produce la conversione del cuore, ma è la conversione interiore, l’acquisizione di senso, l’esperienza amorosa di un «incontro» che davvero può cambiare il nostro sguardo, i parametri del nostro agire, i criteri di giudizio del nostro vivere e, soprattutto, aprirci alla bellezza della salvezza non solo o primariamente nostra, ma anche di chi cammina, vive, attraversa questo mondo, accanto a noi.

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