Nel territorio della Decapoli
XXIII domenica del tempo ordinario
Is 35,4-7a; Sal 145 (146); Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
Nel Vangelo di questa domenica Marco ci descrive una guarigione operata da Gesù in territorio pagano. Il testo si situa in un contesto più ampio, che vede Gesù «in trasferta»: «In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli». La Decapoli era una confederazione di dieci città di cultura ellenistica. Esse, a eccezione di Scitopoli (Beth Shean), si trovavano tutte oltre il Giordano, nella zona a nordest del lago di Galilea. Pompeo le aveva fondate dopo la conquista del paese nel 63 a.C. Difficilmente un rabbi si sarebbe recato su quella riva, appartenente alla tetrarchia di Filippo, dove erano numerosi i pagani.
Queste sintetiche informazioni ci aiutano a capire che la presenza di Gesù in questo luogo è quantomeno insolita, o lo sarebbe stata se non fosse avvenuto prima l’incontro/scontro con una donna «di lingua greca e di origine siro-fenicia» (Mc 7,26). Si tratta dell’episodio che precede immediatamente il brano evangelico di oggi, in cui questa donna, nella regione di Tiro (l’odierno Libano), incontra Gesù e gli chiede di liberare sua figlia da un demonio. Ed è proprio questo dialogo – per la verità dai toni abbastanza forti – che spinge Gesù ad allargare il suo raggio d’azione e d’annuncio messianico anche ai pagani. Per questo motivo, sulla strada del ritorno, anziché scendere direttamente verso la Galilea, fa un giro più lungo passando per la Decapoli.
Non è l’unica volta che la geografia e la storia dei luoghi rappresentano un elemento importante per la comprensione del testo: un esempio in tal senso è l’espressione che si trova in Gv 4,4: «Doveva perciò attraversare la Samaria», dove quel «doveva» è tutto da comprendere, dato che «attraversare la Samaria» non era l’unica possibilità o la strada più comoda per arrivare in Galilea provenendo dalla Giudea.
La presenza quindi di Gesù nella Decapoli non è casuale, ma esprime la sua volontà di ampliare i confini e anche i destinatari del suo annuncio messianico; in questo modo Gesù si manifesta messia non solo di Israele, ma anche delle genti, dei pagani.
Emblematico è allora l’incontro con questo sordomuto, una persona incapace di udire e di parlare, un po’ come lo erano i pagani agli occhi degli ebrei: lontani dalla Parola del Signore e impossibilitati a ricevere la salvezza.
Per sciogliere la lingua e attivare l’udito di quest’uomo Gesù usa un terzo senso, il tatto: «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua». È molto bella questa scena che descrive la delicatezza di Gesù: per guarire il sordomuto gli sarebbe bastato solo pronunciare qualche parola – come già in altri casi –, ma la persona che gli sta di fronte non l’avrebbe udito e non avrebbe potuto neanche rispondergli. C’è in tutto questo un particolare da sottolineare: per il Maestro non è tanto importante raggiungere il risultato, guarire il malato, quanto renderlo partecipe di questa guarigione, entrare in «con-tatto» con lui proprio perché ne percepisca l’azione, sia un soggetto attivo e non passivo di quanto gli sta accadendo.
La reazione finale degli astanti – probabilmente dei discepoli che lo seguivano o di qualche ebreo presente in quel luogo – è un riferimento a Isaia 35,5-6: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto». Con queste parole il profeta indica i segni che annunciano la venuta di Dio stesso: «Egli viene a salvarvi» (Is 35,4) e Gesù, in questo racconto di Marco, compie proprio quei segni annunciati dal profeta non solo verso Israele, suo popolo, ma anche verso tutti gli altri popoli.
L’incontro/scontro con una donna, per giunta straniera, apre i confini della salvezza e permette anche a chi è «culturalmente» sordo e muto di essere «toccato» dalla salvezza; tutto questo è possibile proprio grazie allo scardinamento di paradigmi, di mentalità, di chiusure e di convinzioni religiose che trattenevano e continuano, purtroppo ancora oggi, a trattenere la volontà salvifica di Dio all’interno di schemi, strutture e ruoli che sempre di più appaiono «sordi e muti» alla «novità» di un Dio che viene.