Mese di veglie è questo. Preferenze e canoni: una conversazione
Maggio è tante cose. Fra il resto è anche il mese delle Veglie contro l’omotransfobia, che questo anno sono state davvero tante anche in Italia, ecumeniche come sempre, ma anche in Diocesi cattoliche, in alcuni luoghi presiedute da vescovi. Il versetto biblico – in realtà sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone – scelto come orizzonte dei percorsi apre al confronto fra una teologa e una biblista, che estendono il loro conversare oltre il testo e oltre le veglie, per indagare temi e linguaggi non scontati.

Il 17 maggio è la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, istituita dal Parlamento Europeo nel 2007: la data è stata scelta in ragione del fatto che il 17 maggio 1990 l'Organizzazione Mondiale della Sanità rimosse l'omosessualità dalla classificazione internazionale delle malattie. Avere tuttavia accostato la data e la pratica delle Veglie si deve all’iniziativa del gruppo LGBT Kairos di Firenze che proprio nel 2007 non volle lasciare senza lutto pubblico, senza invocazione e senza recriminazione l’ennesimo suicidio, in quel caso di un ragazzo gay di Torino. Il progetto Gionata coordina in Italia le Veglie, mettendo a disposizione anche materiali e riflessioni. Come un’onda pacifica questa pratica si è diffusa sempre di più e questo anno, a mese concluso, colpisce seguire la mappa delle città e delle chiese che si sono implicate, così che in molti casi ci si chiede perché il tale o tal altro luogo non abbia organizzato niente di simile. Frutto di tanti passi e di molte alleanze, frutto del cammino ecumenico, frutto per la Chiesa cattolica anche del cammino sinodale è un percorso che condivide istanze di pace e giustizia con molte altre istanze, anche quelle dei femminismi.
Un passo biblico – una conversazione
Cristina - Il passo da cui è tratto il versetto guida (Atti 10,33-34) di questo anno è decisamente intrigante. Anche a una semplice lettura si vede che tocca nervi scoperti nella esperienza religiosa, se all’incontro fra Pietro e la famiglia di Cornelio vengono dedicate due narrazioni – che si estendono in quelli che ora sono per noi i capitoli 10 e 11 di Atti, ma è poi alluso anche nel capitolo 15. Quello che colpisce è da una parte la resistenza di chi, stando al testo evangelico, ha più volte ascoltato l’insegnamento di Gesù sul puro e impuro (cf. Mc 7), ma dall’altra la possibilità di riconoscere che l’azione dello Spirito, come in una Pentecoste, irrompe su quei “pagani” (in questo caso e seguendo il vocabolario del testo). Il riconoscimento, la benedizione, il battesimo di Pietro viene dopo, come docilità allo Spirito. Che ne pensi?
Silvia - Il celebre episodio di Pietro e Cornelio in Atti 10 è spesso citato in ambito cristiano inclusivo come paradigma di un Dio che supera i confini e accoglie gli esclusi. Tuttavia, una lettura più critica e contestuale invita alla cautela: sebbene il testo suggerisca un’apertura dello Spirito oltre alcuni limiti religiosi ed etnici dell’epoca, non è affatto scontato che questo implichi sistematica accoglienza di ogni identità. Non va, infatti, dimenticata la strategia narrativa di Atti, che da un lato mostra elementi di novità e discontinuità della fede cristiana e dall’altro ne costruisce un’immagine rassicurante, capace di dialogare con l’ordine dell’impero romano. In questo quadro, la narrazione della conversione di un centurione a Cesarea Marittima – figura emblematica dell’autorità imperiale – appare in qualche modo funzionale a un processo di legittimazione del cristianesimo, che passa anche attraverso l’inclusione di interlocutori istituzionalmente rilevanti. Lungi dal negare il valore dell’inclusione evocata da questo episodio neotestamentario, tutto ciò suggerisce che la tensione tra apertura e norma è parte strutturale del cristianesimo storico, che ha incluso e allo stesso tempo escluso, spesso in base a criteri funzionali. La spinta ad “andare oltre” è dunque reale, ma non lineare né priva di ambiguità: è una tensione da abitare criticamente, più che una conquista da dare per acquisita.
Cristina - Se però leggo il versetto-guida fuori del suo contesto, mi lascia un senso di insoddisfazione. Si potrebbe interpretarlo, spostando le parole ma credo non il senso, dicendo che Dio fa preferenze? Non per rifare nuove graduatorie, non per sostituire “figli di casa” ad altri, ma perché il mistero della benevolenza di Dio è che ognun* è preferito? Perché tutte e tutti siamo chiamati a riconoscerci nei figli che vagano piuttosto che nei fratelli maggiori che non benedicono?
Silvia - Il versetto in questione apre non solo a considerazioni teologiche, ma anche a una riflessione sul linguaggio e sulla sua capacità di generare senso oltre i limiti della formulazione originaria. Lo spostamento da “Dio non fa preferenze” a “Dio fa preferenze” è un modo di interrogare i margini semantici del testo – e forse anche i confini del dicibile. Il linguaggio, in questo senso, non è mai chiuso o univoco. Il “gioco linguistico” non elude l’analisi testuale, ma costituisce un esercizio di apertura, in cui si articolano accessi diversi al reale e si esplorano nuove possibilità di significato. Il tuo interrogativo – se ogni persona sia, nel mistero dell’agire divino, in qualche modo preferita (e se tale movimento di preferenza possa estendersi anche oltre l’umano, verso forme di alterità non personali o non umane) – suggerisce uno spazio ermeneutico in cui il testo biblico si lascia attraversare da letture molteplici e anche eccedenti. Naturalmente, resta imprescindibile considerare la direzione ideologica e narrativa del testo di Atti, ma all’interno di questa cornice, l’attenzione al linguaggio mostra come anche le parole del testo, nel loro farsi e rifarsi, continuino a generare senso e a sollecitare domande.
Cristina: qui potremmo rilanciare il discorso, magari dandoci altri appuntamenti, nel senso che il lavoro sul linguaggio non riguarda soltanto l’interpretazione dei testi biblici, ma anche la cura del dire ecclesiale, là dove le formulazioni più consolidate – come, ad esempio, “matrimonio tra uomo e donna” inteso come canone dell’amore secondo l’espressione usata nell'omelia del 1 giugno da papa Leone XIV – rischiano di assumere una funzione definitoria e delimitante. Tuttavia, anche queste espressioni, se ascoltate con attenzione, possono rivelare potenzialità ed essere rilette nella loro apertura implicita, nella capacità di evocare forme del legame, dell’alleanza, della cura, che eccedono l’intenzione normativa originaria. Un po’ come avviene nei testi biblici, il cui “canone” è eccedente, sporgente, benedicente. Ne parleremo ancora!