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Lo sguardo di un «forestiero»

III domenica di Pasqua

At 2,14a.22-33; Sal 15 (16); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

La pagina evangelica di questa domenica è una delle più belle e più dense dei racconti sulle apparizioni del Risorto che gli evangelisti riportano. Per ovvie ragioni vorrei soffermarmi su una sola parte della narrazione, partendo da questa espressione: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?».

A esprimersi così è uno dei due viandanti, discepoli di Gesù, che si stanno dirigendo verso Emmaus. Chi siano in realtà i «due» non è chiaro, si sa solo il nome di uno: Clèopa. Di questo Clèopa poi si sa, da Giovanni, che sua madre era presso la croce: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopae Maria di Màgdala» (Gv 19,25).

L’altro compagno del cammino è sconosciuto e c’è chi ha ipotizzato che in realtà non fosse un «compagno», ma una «compagna», forse la stessa madre o un’altra donna. L’ipotesi rimane tale e finora senza soluzione. Altro elemento importante della scena è il luogo verso cui «i due» sono diretti, ovvero Emmaus.

Il fatto che venga specificata la meta del loro cammino è un dettaglio rilevante se si considera cosa «Èmmaus» rappresentava nella memoria storica del popolo ebraico. A Èmmaus Giuda, il maccabeo, aveva sconfitto le truppe di Gorgia, generale del re Antioco Epifane IV, e liberato Gerusalemme dalla dominazione seleucide (164 a.C.). Per incitare i suoi compagni nella battaglia decisiva di Èmmaus, Giuda aveva gridato loro: «Alziamo la nostra voce al Cielo, perché ci usi benevolenza e si ricordi dell’alleanza con i nostri padri e voglia abbattere questo schieramento davanti a noi oggi. Allora tutte le nazioni sapranno che c’è chi riscatta e salva Israele» (1Mac 4,10-11). Andare a Èmmaus significa allora cercare una consolazione nel ricordo, ma anche nella speranza, che prima o poi ci sarà qualcuno che «riscatta e salva Israele». 

«I due», lungo il cammino, discutono sulla realtà del momento, la delusione di aver creduto che questo Gesù sarebbe stato il liberatore di Israele, la fine infamante che aveva fatto e la successiva «diceria» di alcune donne «delle nostre» che dicono che sia vivo, mentre l’unica cosa visibile, constatata «da alcuni dei nostri» è che la sua tomba è vuota.

A un certo punto si accosta loro uno sconosciuto, che chiede ragione di quanto stanno dicendo. Ed è molto interessante la loro reazione tra lo stupore, la meraviglia, e forse anche lo sconcerto. Se «costui» è su questa strada significa che anche lui proviene da Gerusalemme, e come fa a essere all’oscuro di quanto è avvenuto? «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme!».

La risposta del «forestiero» è sorprendente: anziché scusarsi o ammettere di non sapere, fornisce loro le «giuste» chiavi di lettura per comprendere quanto è avvenuto: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui». Anche se il racconto va avanti e quanto segue è certamente centrale nel racconto lucano, vorrei fermarmi qui, su questo punto.

Un «forestiero» è capace di fornire una lettura della realtà che chi, invece, è completamente immerso in essa non è in grado di leggere. Gli «strumenti» poi per comprendere tali fatti sono «Mosè, i profeti e tutte le Scritture». Abbiamo qui due indicazioni, o suggerimenti, che credo siano valide al di là del contesto immediato.

A volte la realtà che ci circonda ci avvolge a tal punto da esservi immersi e da costituire l’unico nostro orizzonte, l’unica prospettiva di visione. Mentre chi viene dall’esterno, il «forestiero», è capace di allargare l’orizzonte e di riposizionare il «problema», la realtà, a partire da un’altra prospettiva, da altri punti di vista.

Non solo, la seconda indicazione è data dalle «Scritture» come luogo ermeneutico valido in cui ricollocare ogni situazione per individuare una chiave di lettura che apra a un’ulteriore ricerca di senso. Da una parte, dunque, il valore dell’«alterità», del «diverso», dello «straniero» come portatore di «visione» in una realtà che sembra asfittica, chiusa, senza speranza o futuro; dall’altra la vitalità di una Scrittura, espressione di un’esperienza umana del «Dio dei viventi» (Mc 12,27; Mt 22,32), che abbraccia tutta la Storia poiché la contiene in ogni sua declinazione: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).

E sarà proprio il «pane» di quel «forestiero» che aprirà gli occhi dei due «viandanti», proiettandoli nuovamente in quella stessa realtà che ora, però, al loro sguardo, apparirà totalmente «diversa» e soprattutto vitale.

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