L’incontro con il Risorto
Nel Vangelo di questa domenica Gesù si mostra ai suoi discepoli che se ne stanno chiusi in un luogo, probabilmente lo stesso in cui avevano celebrato con lui la sua ultima cena, per paura di rappresaglie da parte delle autorità giudaiche.

II domenica di Pasqua
At 5,12-16; Sal 117 (118); Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31
Nel Vangelo di questa domenica Gesù si mostra ai suoi discepoli che se ne stanno chiusi in un luogo, probabilmente lo stesso in cui avevano celebrato con lui la sua ultima cena, per paura di rappresaglie da parte delle autorità giudaiche. Ci sono alcuni elementi nel racconto che possono farci riflettere. Il primo è proprio il luogo. Stando al racconto degli Atti questo luogo è la «stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi», e in quella stanza non vi erano solo i discepoli ma anche le discepole: «Insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,12).
Quanto viene descritto quindi è qualcosa che riguarda «sinodalmente» – per usare un termine tanto attuale – tutto un gruppo di persone, uomini e donne, che hanno seguito Gesù e si ritrovano ora tutti insieme.
Il secondo elemento è proprio il verbo che Giovanni utilizza per «l’entrata in scena» di Gesù che non appare, ma si rende visibile nella sua dimensione di Risorto, ovvero nello «stare in mezzo», nell’esserci sempre e dovunque qualcuno si riunisce nel suo nome.
A questo punto, ed è questo il terzo elemento, Giovanni ci dice che Gesù «soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”». Secondo il racconto di Giovanni, quindi, è in questo momento che coloro che sono presenti in quella stanza ricevono lo Spirito Santo. Lo Spirito quindi è dato a tutti e a tutte, e tutti e tutte sono invitati a esercitare il dono più grande dello Spirito: la libertà di perdonare, di rimettere i peccati.
Ma che cosa significa «rimettere i peccati»? La forza dello Spirito e l’invito che Gesù rivolge loro sono finalizzati alla possibilità, che ciascuno ha, di liberare chi gli ha fatto del male da quello stesso legame di male che lo trattiene, lo imprigiona e lo condiziona. E solo chi quel male lo ha ricevuto può operare tale liberazione, può perdonare il mal-fattore. Al «mal-fattore» spetterà poi accettare o meno quel perdono, ovvero riconoscere prima di tutto di aver commesso quel male e quindi poterne ricevere la liberazione, poterne essere liberato, perdonato.
Non si tratta dunque di una cosa semplice e neanche di un potere che «cade» dall’alto, ma di una grande responsabilità a vivere da persone libere e liberanti, da persone capaci di offrire «libertà» accettando anche la possibilità del rifiuto. L’immagine che c’è dietro è quella di Gesù sulla croce: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Se da una parte viene offerto il perdono, la liberazione, spetta poi al peccatore accogliere o meno tale offerta, riconoscendo proprio quel male.
E tutto questo sembra essere l’oggetto del primo invio – «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» –, della prima missione che Gesù affida ai suoi discepoli e discepole: essere «fabbricatori» di pace a partire proprio dalle relazioni intra-personali, dalla propria vita.
Ultimo elemento su cui vorrei soffermarmi è la richiesta di Tommaso di voler constatare di persona che Gesù non è un fantasma, ma è davvero quel Gesù che è morto in croce ed è risorto. Una richiesta che viene accolta dal Signore che, di nuovo, «stando in mezzo» ai suoi discepoli e discepole, nello stesso luogo, si mostra a Tommaso e lo invita a constatare i segni «storici» del suo essere risorto.
Da questa ultima scena possiamo constatare che non c’è uno iato tra ciò che Gesù è stato storicamente e il suo essere ora «vivo per sempre» (Ap 1,18): la risurrezione non è una metempsicosi, ma è la pienezza redenta di tutto ciò che, nella nostra vita terrena, siamo stati nell’amore e di cui il nostro corpo storico è stato strumento e soggetto di relazione. Nell’amore tutto ciò che siamo è coinvolto e nello stesso tempo espresso, vissuto, sperimentato. E le ferite mortali di colui che è morto per amore, nel Risorto non sono più segni di morte ma di pienezza di vita, testimoni storici del suo amore.
Se tutto questo ci porta a riflettere sulla storia di relazioni che è inscritta nel nostro corpo, dall’altra parte ci apre anche a un’altra riflessione, proprio sul «corpo» e soprattutto sull’immagine di questo. Come Tommaso, oggi più che mai, il desiderio di «vedere» prevale su ogni cosa, l’immagine è diventata il segno, la prova della nostra esistenza, l’unica cosa che, paradossalmente, vale. Nel trasmettere le notizie, ad esempio, non contano più le parole, ma le immagini; basta pensare all’enorme successo di tutti quei social network che trasmettono solo «clip», o all’uso di fabbricare immagini – a volte vere e proprie fake news – per trasmettere false verità, per suscitare le reazioni desiderate.
Per non parlare poi del «metaverso», di quel mondo puramente digitale in cui ognuno può costruirsi un’immagine «irreale» e immergersi in esso fino al punto di tagliare qualsiasi legame con la realtà vera, con il mondo reale.
In queste ore e in questi giorni ci sarà un «cadavere» esposto, la salma del caro e amato papa Francesco. Forse un numero enorme di persone si metteranno in fila per «vedere» il suo corpo senza vita e magari – cosa che personalmente ritengo oscena – farsi un «selfie» con dietro la bara.
Sarebbe bello però, anche in quest’occasione, ricordare che la nostra fede non si basa sulla morte e sulla sepoltura, ma sulla «risurrezione della carne» come recita il credo cristiano: «La “risurrezione della carne” significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell’anima immortale, ma che anche i nostri “corpi mortali” (Rm8,11) riprenderanno vita» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 990).