Liberare dalla violenza anche il sacramento della riconciliazione
Il sacramento della riconciliazione può diventare luogo di violenza?
Apparentemente avulso da violenza – anzi, momento decisamente dedicato all’assumersi la responsabilità di un male compiuto, assieme all’impegno di rimuoverlo, o quanto meno smussarlo, vissuto ecclesialmente – è il sacramento della riconciliazione. Può diventare luogo di violenza, trasformarsi in un percorso / mentalità che non aiuta a convertirsi al bene, al Signore?
Dare il giusto nome
La prima, fondamentale, violenza che percepisco, rispetto al quarto sacramento, è la sua denominazione. «Confessione» è ancora il modo più comune di chiamarlo, quando «riconciliazione» sarebbe più consono e corretto. Chiamare qualcuno, o qualcosa, con un nome sbagliato, non è indifferente per le esistenze: la parola svela, all’esterno, il nostro mondo interiore.
E quindi possiamo notare due livelli di abuso, semplicemente nell’indicare in modo «impreciso», questo sacramento:
– «confessione» è soltanto una delle tappe di un percorso: il fine è la «riconciliazione». Etichettare, quindi, l’intero sacramento con una sola delle sue tappe intermedie (e non, piuttosto, con il suo obiettivo) è una violenza logico-esistenziale, morale e affettiva che non può che generare ulteriore violenza;
– ne scaturisce una violenza sull’immagine di Dio, di cui ci nutriamo. «Confessione» media l’immagine di un dio contabile, giudice, distante. «Riconciliazione» media, invece, un Dio vicino, attento, amante. Mi relaziona con un Dio capace di correre incontro a questa figlia – che sono! – che sì, non ha ancora capito granché di lui, ma gli si sta avvicinando nuovamente (cf. Lc 15,11-32).
C’è violenza
Altre subdole forme s’insidiano in questa profonda intimità con il Signore. Molte colpiscono più duramente le donne e i loro cammini di sequela.
C’è violenza, per tutti, ogni volta che il ministro si accosta a noi in modo routinario, standardizzato, indifferente alle pieghe, ai vissuti. Violenza ancora più esplicita sulle donne quando la risposta è livellata alla comprensione di un maschio, celibe, interpretante in un unico modo la spiritualità e il modo di rispondere al Signore, nella storia. La violenza di una spiritualità monolitica e passe-partout è duplice: sulla donna certo, ma anche sullo Spirito (che dovrebbe poter soffiare dove vuole, cf. Gv 3,8).
C’è violenza ogni volta che, a un’ammissione di errore e di male compiuto ed evitabile, ci viene risposto in modo paternalistico, eliminando ogni responsabilità adulta; o con un mansplaining, anche in situazioni che il ministro conosce solo in modo indiretto, proponendo «risoluzioni» astratte, per nulla attente alla realtà e ai quotidiani concreti, con sicumera intollerabile.
C’è violenza ogni volta che esprimiamo una fatica a vivere il nostro corpo, e i suoi ritmi biologici, in sintonia con il Signore e il tutto viene minimizzato con un superficiale «ti passerà». Come se la relazione con il Signore – e con gli altri e se stessi – non si costruisse gradualmente, giorno per giorno, ma fosse un’illuminazione magica, venuta da chissà dove, in un futuro ignoto.
C’è violenza ogni volta che, per superare una nostra fatica / errore / colpa, ci viene proposto un modello biblico femminile interpretato superficialmente, senza alcuna finezza ermeneutica; o un modello di santa / santità, impagliata e asettica: le immaginette di modelli femminili, con gli occhi – quasi sempre cerulei – rivolti al cielo e le aureole luccicanti, non ci sono di aiuto, anzi. Tanto più se poi andiamo a conoscere la storia di queste donne, che ci appaiono quanto mai pulsanti e «rivoluzionarie» per il loro tempo. Maria in primis…
C’è violenza ogni volta che non siamo aiutate a distinguere tra senso di colpa morale (ovvero il male commesso, di cui assumiamo responsabilità e impegno a rimuoverlo) e senso di colpa psicologico che ci viene iniettato, in quanto donne, dalla società e dai mille e mila ruoli frantumanti che ci sono richiesti.
C’è violenza ogni volta che le parole sono troppo «alte» (per sottolineare una certa «distanza», un certo «potere», quanto meno intellettuale) o troppo «basse» (perché siamo considerate ancora portartici – sane o malate? – di fedi bambine, al limite dell’emotivo e del sentimentaloide).
C’è violenza ogni volta che torniamo al quotidiano, come anestetizzate sulla complessità del nostro reale, pronte a «timbrare un cartellino» con un Pater, Ave e Gloria, senza avere gli strumenti reali una conversione concreta e una fede al femminile (che non è, necessariamente, una fede femminista).
C’è violenza ogni volta che entriamo in confessionale perché il kerygma ci ha se-dotte e ne usciamo rintronate da moralismi, psicologismi, «buon senso» … maschili.
Che sia un sacramento di tenerezza
In fondo non chiediamo molto: solo che questo momento, ritmato in tappe, «pentimento», «confessione», «assoluzione», si risolva con una «riconciliazione» che ci aiuti a essere del Signore, con tutto il nostro cuore, la nostra mente e la nostra forza (cf. Mc 12,30).
Chiediamo che sia un sacramento di tenerezza, intesa come nostra malleabilità: per introiettare ed esperire il Signore, non per essere de-formate.
Gaia De Vecchi è docente di Teologia morale (Università cattolica del Sacro Cuore, Pontificia università gregoriana, Istituto superiore di scienze religiose a Milano, PIME) e insegnante di religione. Ha scritto Il peccato è originale?, Cittadella, Assisi 2018, e ha contribuito con il saggio «Con esistenza di donne, nel segno di un comune divenire» al volume M. Lintner, Teologia morale sessuale e familiare. Una prospettiva di etica relazionale, Queriniana, Brescia 2024.