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L’esodo della Parola

II domenica dopo Natale

Sir 24,1-4.12-16 (NV) [gr. 24,1-2.8-12]; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

          Il prologo di Giovanni, per la solennità dello stile e la polisemia di alcuni termini, appare sempre un testo di difficile lettura.

          Certamente è diverso, come incipit, dalle aperture dei Sinottici, e tale diversità si manterrà poi nelle narrazioni che seguono. Siamo posti in questo modo di fronte a due modalità di vedere e raccontare la storia salvifica: o come cronaca o come mistero.

          Neppure i Sinottici, in realtà, scrivono una cronaca in senso stretto della vita di Gesù e del suo insegnamento, ma certamente lo stile narrativo li avvicina di più a quello che noi pensiamo essere un resoconto dei fatti. Giovanni invece sembra puntare dritto al mistero di Dio, della sua rivelazione e del suo abbassamento – abbassamento che ci è noto già dal primo Testamento (p. es. Es 3,8), e che nella tradizione rabbinica va sotto il nome di «discese della Shekina» (cf. Abot de Rabbi Natan).

          Il prologo anticipa quello che Gesù dirà di sé e del suo ruolo salvifico, e che troviamo compendiato in un versetto del cosiddetto discorso d’addio: Sono uscito dal padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre (Gv 16,28). Benché infatti il testo faccia riferimento alla creazione (Gv 1,1) e ricorra alla metafora dell’opposizione tra luce e tenebre, cui segue un intermezzo storico riferito alla persona di Giovanni Battista (vv. 6-15) e infine un accenno ecclesiale attraverso un soggetto plurale in qualità di testimone («noi», vv. 16-18), in verità si parla di un esodo. Esodo dal Padre e al Padre (cf. anche Gv 13,1). Questa tematica esodica percorrerà tutto il Quarto Vangelo.

          Come si è detto, l’incipit è solenne e rimanda alla creazione. L’espressione en arche, «in principio», è hapax in Giovanni. Il testo che le è più vicino è 1Gv 1,1 dove si legge ap’arches.

          L’imbarazzo tuttavia si manifesta nella traduzione del termine logos, che in greco è carico di significati filosofici estranei all’evangelista. Tradotto verbum da Gerolamo, sermo da Erasmo, noi ci limitiamo ancora a una specie di calco arcaizzante («verbo»), che non è una vera traduzione. Che logos faccia riferimento all’ebraico dabar o all’aramaico memra (cf. la notte della creazione in Targum Neofiti Es 12,42: e «la memra di YHWH era la luce e illuminava») vuol dire, com’è noto, che non si tratta di una parola pura e semplice, ma anche di un atto e un accadimento, il che in italiano esigerebbe una perifrasi. Questa «parola», oltre a essere un dabar è un Hepeṣ, un progetto sapiente e benevolente, infatti Gesù non si appropria mai per sé del termine logos, perché non è un titolo, ma il nome di una funzione.

          Il testo non procede poi con una successione progressiva di eventi ma, dopo aver introdotto la venuta di Gesù attraverso la metafora del contrasto tra luce e tenebre, presenta la figura di Giovanni Battista in quanto testimone della luce. A questo punto occorre notare come l’evangelista giochi sull’aspetto – elemento che in italiano è espresso, in genere, usando gli avverbi – del verbo greco: usa infatti l’imperfetto quando parla del logos, perché l’imperfetto indica una continuità nel passato, e passa all’aoristo parlando del Battista, per indicare un’azione puntuale e compiuta. Come dire eternità e storia a confronto, come aveva già notato Gerolamo.

          Inoltre un termine chiave, che avrà particolare importanza negli ultimi capitoli di Giovanni è kosmos, «mondo». Di per sé indica un «mondo ordinato», in opposizione al chaos, ma è proprio questo mondo ordinato che si rivelerà avverso a Gesù. Fin da adesso l’ascoltatore/lettore è avvertito che il progetto divino è, per così dire, «a rischio», perché potrebbe non essere accolto, ma è ugualmente «rischioso» per chi non lo accolga o lo avversi.

          Infine il prologo insiste sul termine charis, che a qualche studioso ha fatto pensare a un influsso paolino, specie per il v. 17. In esso però non viene stabilita un’opposizione tra Torah e grazia, quanto piuttosto una continuità nella linea del «grazia su grazia» del versetto precedente.

          La Torah infatti è un dono e quindi è già grazia: la pienezza del Verbo porta a compiutezza la pienezza della grazia della Torah.

 

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