L'efficacia di un invito
La prima lettura di questa domenica, tratta dal Secondo libro dei Re, presenta una storia molto piacevole e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.
XXVIII domenica del tempo ordinario
2Re 5,14-17; Sal 97 (98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
La prima lettura di questa domenica, tratta dal Secondo libro dei Re, presenta una storia molto piacevole e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.
La storia narra di un grande ufficiale del regno arameo, che soffre di una non meglio definita malattia della pelle. Nonostante i tentativi fatti questo ufficiale, di nome Naaman, non trova nessuno nel suo paese in grado di guarirlo. Una serva della moglie, di origine israelita, suggerisce di recarsi in Israele, l’allora Regno del Nord, e di rivolgersi al profeta Eliseo. Non resta quindi che fare quest’ultimo tentativo.
Seguono quindi i preparativi per la partenza e il bagaglio da portare, tutti elementi che purtroppo nella versione liturgica di questa prima lettura sono stati tagliati, ma che sono invece fondamentali per cogliere l’intero senso del racconto. Naaman quindi parte, con sé ha «dieci talenti d’argento, seimila sicli d’oro e dieci mute di abiti» (2Re 5,5).
La cosa interessante è che una volta giunto in Israele non cerca il profeta, ma il re, a cui consegna una lettera di presentazione che lo stesso re di Aram ha scritto per lui. La reazione è totalmente opposta alle aspettative: il re s’indigna, si strappa le vesti e esclama: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra? Riconoscete e vedete che egli evidentemente cerca pretesti contro di me» (2Re 5,7).
Solo a questo punto entra in scena il profeta Eliseo che, venuto a sapere dell’accaduto, manda a dire al re: «Perché ti sei stracciato le vesti? Quell’uomo venga da me e saprà che c’è un profeta in Israele» (2Re 5,8). La malattia e la guarigione non sono questioni né politiche né diplomatiche, ciò che è in gioco è l’umano al di là di ruoli, titoli e quant’altro.
A questo punto dovremmo aspettarci che Eliseo accolga benevolmente il povero Naaman, ma non è così, anzi non si degna neanche di guardarlo in faccia e si limita semplicemente a mandargli un messaggio: «Naaman arrivò con i suoi cavalli e con il suo carro e si fermò alla porta della casa di Eliseo. Eliseo gli mandò un messaggero per dirgli: “Va’, bàgnati sette volte nel Giordano: il tuo corpo ti ritornerà sano e sarai purificato”» (2Re 5,9-10).
Naaman è lì davanti alla sua porta con «dieci talenti d’argento, seimila sicli d’oro e dieci mute di abiti», ed Eliseo che fa? Neanche esce dalla porta di casa e si limita solo a inviargli un messaggio con il quale, tra l’altro, gli prescrive qualcosa di abbastanza banale: andare a fare per sette volte un bagno nel fiume Giordano.
Chiunque al posto di Naaman avrebbe reagito allo stesso modo: «Naaman si sdegnò e se ne andò dicendo: “Ecco, io pensavo: Certo, verrà fuori e, stando in piedi, invocherà il nome del Signore, suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra”. Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?”» (2Re 5,11-12). Un viaggio a vuoto dunque, non resta che fare dietro-front e tornare a casa, malato.
Ma per fortuna i servi sono spesso e volentieri più saggi dei loro padroni, e così il servo di Naaman lo convince comunque a provare. In fondo che cosa gli costa bagnarsi nel Giordano, visto che è già sul posto? Ora non viene detto se il merito spetti proprio alle acque del Giordano – che di per sé non hanno nulla di miracoloso – o all’accoglienza di una così «insulsa» richiesta, fatto sta che la malattia scompare e il testo ci dice che il corpo di Naaman «ridivenne come il corpo di un ragazzo» (2Re 5,14).
La gioia è grande, ma anche il senso di riconoscenza: Naaman torna da Eliseo e, cosa importante, non sottolinea la sua bravura come profeta-guaritore, ma riconosce che in tutta questa storia il vero artefice è Dio: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele» (2Re 5,15). Questa volta Eliseo lo accoglie in casa, ma si rifiuta comunque di essere «pagato». Se l’artefice di tutto è Dio non ci sono regali che possano contraccambiarlo, c’è solo una cosa da fare: avere fede.
E quindi, con buona pace di tutti gli ex voto che abbelliscono le nostre chiese e i nostri santuari, Naaman chiede solo una cosa: un po’ di terra di Israele da portare con sé. Il suo ruolo e la sua posizione sociale e politica non gli consentono di abiurare apertamente alle divinità aramee, in particolare al dio Rimmon, ma quel mucchio di terra sarà il «luogo», il vero tempio e santuario della sua fede. Era partito, malato, con doni ingenti e ritorna con quegli stessi doni, guarito e con un po’ di terra su cui pregare. Naaman rimane uno straniero, ma sa che «quella terra» è sacra, perché da «quella terra» ha ricevuto la salvezza.
Che cosa c’entra tutto questo con il Vangelo di oggi? Anche nel racconto di Luca ci sono delle persone malate, dei lebbrosi. Sono dieci e tutti e dieci vedendo Gesù gli chiedono di avere pietà di loro. Una richiesta ambigua, come ambigua era la lettura della lebbra, nel senso che questa poteva essere sì vista come una malattia, ma anche come la punizione di un peccato commesso.
La risposta che Gesù dà loro richiama quella di Eliseo, nel senso che non risponde alla loro richiesta, almeno non direttamente; li invita, però, ad andare al Tempio e a presentarsi davanti ai sacerdoti. Il senso di tale invito forse non è chiaro a tutti: la lebbra era vista come una malattia infettiva e contagiosa, per cui chi ne era affetto doveva rimanere fuori dall’abitato, e se incontrava qualcuno per la strada doveva dichiarare il proprio stato in modo che il passante potesse allontanarsi ed evitare il contagio.
Ma dalla lebbra, come da altre malattie del genere, si poteva guarire e l’accertamento dell’avvenuta guarigione e del conseguente reintegro nella comunità veniva sancito da dei sacerdoti preposti a tale mansione nel Tempio, una sorta di ufficiali sanitari ante litteram. Ecco quindi il senso della risposta di Gesù «Andate a presentarvi ai sacerdoti». Tutti guariti e con certificato sanitario annesso.
Andrebbe sottolineato che anche qui, come per Naaman, è l’«andare» che permette la guarigione; cioè quando Gesù dice loro di «andare» sono ancora lebbrosi, ma mentre «vanno» guariscono; non vi è nessuna garanzia nel «bagnarsi nel Giordano», ma mentre lo si fa si guarisce. E anche nel caso di Gesù, l’unico che torna indietro per ringraziarlo è uno straniero, un samaritano. Non ha bisogno di portarsi dietro un po’ di terra, perché è già su quella «terra», ma anche per lui vale la lezione di Naaman: la fede non è fatta di «cose», né di atti di devozione, ma è lasciarsi «guarire» in profondità da quell’unica Parola di vita.
Lambert Jacobsz, Eliseo rifiuta i doni di Naaman, 1628-33 circa. Collezione privata (The Leiden Collection).
