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La vita come parabola

V domenica di Quaresima

2Cr36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

Vedi, io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte (Gen 27,2) – dice Isacco al figlio Esaù –, e sono parole che tutti potremmo condividere. Non conoscere il giorno e soprattutto ignorare le circostanze della propria morte, tranne che in casi molto speciali, è una delle particolarità della condizione umana. Gesù invece conosce l’ora o, meglio, sa che c’è un’ora decisa e decisiva che egli può individuare almeno in parte dal concorso delle circostanze (l’evolversi della situazione politica e gli umori della folla per esempio), ma che in realtà è legata a un’economia superiore, metastorica, accolta liberamente dalle mani del Padre.

          Ora è il termine marcato dei versetti che abbiamo di fronte: ricorre infatti ai vv. 23 e 27 due volte, ma lo si ritrova altre volte nel quarto Vangelo nel senso di un tempo determinato per qualcosa. Si veda in particolare Gv 16,21, in cui il termine si riferisce al parto, che è un tempo che prescinde dalla volontà umana, se non in casi eccezionali (allora si parla di nascita prematura o di aborto). Come si sa, per chi nasce quel certo momento è ad alto rischio; in ogni caso muore alla vita intrauterina e protetta che conosce, per venire alla luce in una vita che non conosce.

          Nascita e morte sono così parimenti traumatiche.

          Gesù parla della sua morte di cui conosce ora e circostanze come un momento di gloria (12,28) e se al c. 16 usa il parto come termine di paragone, qui ricorre a un mašal a sfondo agricolo.

          Si tratta di un doppio periodo ipotetico costruito su un parallelismo antitetico in chiasmo, la cui immagine centrale è un chicco di grano con il quale è facile identificare Gesù stesso. Il chicco cade (peson, participio aoristo e azione temporalmente non determinata, ma del tutto compiuta, «cadendo» o «che cade», v. 24) ed evoca l’incarnazione, il cui esito naturale è la morte. Se per caso il chicco non muore (o si sottrae alla morte), dimora/rimane (menei) da solo; se invece muore, com’è naturale che sia, l’esito della morte è molto frutto (polun karpon). Come dire che l’incarnazione da sola non basta. La morte è indispensabile perché il Figlio non rimanga da solo, ma abbia molti che credono in lui.

          Chi poi voglia essere suo servo – e qui il linguaggio si fa ecclesiale – deve compiere lo stesso percorso del Verbo: abbassamento, morte e sepoltura.

          Una prima avvisaglia del frutto abbondante, ovvero dei molti che credono, potrebbero essere i Greci del v. 20, probabilmente dei «tementi Dio», simpatizzanti per l’ebraismo, che poi spariscono dalla scena, ma in qualche modo preannunciano la futura predicazione ai pagani. Il loro voler «vedere» Gesù non pare una semplice curiosità, ma ha già qualcosa del credere. Si rivolgono infatti ad Andrea e Filippo, i quali conoscono per esperienza diretta l’efficacia del «vedere» in ordine al credere (cf. Gv 1,39, «venite e vedete»).

          I fratelli di Bethsaida, che fanno da tramite agli Ellenes, che sono greci a pieno titolo vista la denominazione, non ebrei di lingua greca (Ellenistai, At 6,11; 9,29), mostrano che la salvezza seppur universale non può comunque prescindere da Israele e dalla sua attesa messianica.

          Gesù dà dunque il suo ultimo insegnamento pubblico in cui sentiamo anche l’eco delle parole del Getsemani (v. 27) parlando di morte e di gloria, anzi della propria morte come glorificazione e ricorre di nuovo al verbo «innalzare» (upsoo, v. 32; anche 3,14, 8,28 e in forma indiretta 12,34), con un gioco di parole trasparente per noi, a cose avvenute, non per il suo uditorio, apostoli compresi. I quali capiranno tutto in seguito e retroattivamente.

          Quando Isacco pronuncia le parole sopra riportate è cieco e può essere ingannato dalla moglie, perché anche le cose più vicine gli sono celate. Al credente invece è chiesto di guardare le realtà lontane attraverso le cose e le vicende quotidiane, come leggesse la propria vita in trasparenza al modo di una parabola. E ancora gli è chiesto di lasciarsi attirare da una morte non sua per vivere bene la propria, in quanto frutto di una vita ben vissuta. Come bene ha detto Rilke: O Signore, da’ a ciascuno la sua giusta morte. Il morire che procede da una vita in cui ebbe amore, senso e pena.

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