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La tenacia della preghiera

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, ci racconta di una battaglia tra il popolo uscito dall’Egitto e in marcia nel deserto e gli amaleciti, una popolazione seminomade del Negev.

XXIX domenica del tempo ordinario

Es 17,8-13; Sal 120 (121); 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8

 

L’antefatto, importante per capire tale scontro, è il dono che Dio fa al popolo israelita di una fonte di acqua. Il popolo, esasperato dalla marcia prolungata nel deserto, sta perdendo la speranza, e la domanda che risuona è: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

In risposta a tale grido Dio interviene per mezzo di Mosè facendo scaturire dell’acqua dalla roccia. È un momento di ristoro, la possibilità di continuare il cammino, la testimonianza che Dio c’è e guida il suo popolo. Ma che cosa c’è di più allettante di una sorgente d’acqua in mezzo al deserto? E così ecco che Amalek, capo di questo clan degli amaleciti, «venne a combattere contro Israele» (Es 17,8) con l’intento di impossessarsi dell’acqua e del pozzo che Israele aveva creato a Refidim e che è ancora oggi visibile, se l’ipotesi dell’archelogo Emanuel Anati è corretta.

Attaccato da Amalek, Mosè organizza la difesa e comanda a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Ci sarà dunque una difesa, ma la forza in cui Mosè confida non è quella degli uomini, bensì quella della preghiera. Se il Signore è in mezzo al suo popolo, sarà lui a combattere contro Amalek; a Mosè spetta pregare per questo. Più intensa e costante è la sua preghiera, dice il testo, e più lo scontro si volge a favore degli israeliti, ma se Mosè cede e abbassa le braccia, ecco che l’avversario ha il sopravvento.

Alla fine la costanza di Mosè nel rimanere in preghiera salva il popolo dall’attacco di Amalek e permette la possibilità di sostare a Refidim e di fare una buona scorta di acqua per il prosieguo del cammino.

Il popolo in cammino nel deserto subisce un attacco, lo scontro è inevitabile, ma ciò che risulta definitivo non è la forza delle armi, ma l’incessante preghiera di Mosè a Dio. Qualcosa di simile – mutatis mutandis, direbbero i latini – la ritroviamo nella parabola che Gesù narra ai suoi discepoli.

Al posto di un popolo esausto in marcia nel deserto troviamo una vedova e sappiamo che le vedove, insieme agli orfani e agli stranieri, erano le categorie più deboli nella cerchia sociale. Questa vedova subisce un’ingiustizia, è anche lei «attaccata» da qualcuno che definisce come «avversario». Per difendersi si rivolge a un giudice che «non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno», ma che soprattutto non ha nessuna intenzione di darle udienza.

L’insistenza della donna alla fine fa sì che il giudice – potremmo definirlo indolente – l’ascolti e faccia giustizia, ponendo fine all’attacco di colui che avversava la donna. A commento di questa parabola Gesù afferma che se l’insistente richiesta di giustizia della donna ha finalmente convinto il giudice ad intervenire, ancora di più l’insistente preghiera, come già Mosè aveva mostrato, muove Dio a intervenire: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente».

C’è però un problema, un particolare da osservare: sicuramente Dio farà giustizia ma, come si è visto, c’è bisogno di qualcuno che creda in questa giustizia, che creda che davvero Dio «è in mezzo al suo popolo»; c’è bisogno, in altre parole, della fede. Ed è infatti così che si conclude il discorso di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Mosè ha avuto fede in Dio, la sua fiducia non era riposta nella forza dei suoi uomini, ma nella fedeltà di Dio nei confronti del suo popolo; anche la donna esprime la sua fede, una fede in una giustizia che è tale sempre, anche se chi l’amministra non ha molta voglia di farlo; e oggi quale è la nostra fede?

Questa domanda non è un invito a un esame di coscienza, come potrebbe in prima battuta sembrare, ma la risposta a tale domanda è l’elemento fondamentale per comprendere che cosa sia giusto, che cosa sia e dove sia la giustizia e, soprattutto, che tale risposta non può essere solo umana, perché sarebbe sempre limitata e parziale.

La fede allora non è solo la possibilità di confidare nell’intervento di Dio, nelle tante e laceranti situazioni di ingiustizia, ma è anche l’unica via, l’unica «finestra» attraverso cui possiamo contemplare, desiderare e riconoscere la Giustizia: «Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,12).

Da un avversario che attacca bisogna difendersi, sia Mosè che la vedova lo fanno, ma né Mosè né la vedova possono sconfiggere del tutto l’«Amalek» di turno, questo spetta solo a Dio. E la fede è proprio questo: la certezza che l’ultima parola non è di «Amalek», non lo è e non lo sarà per sempre: «Allora il Signore disse a Mosè: “Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!”. Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò “Il Signore è il mio vessillo” e disse: “Una mano contro il trono del Signore! Vi sarà guerra per il Signore contro Amalek, di generazione in generazione!» (Es 17,14-16).

In cosa con-fida l’uomo? Nel bene, nella capacità di bene che può perseguire o nella forza delle proprie armi?

Pauwel Casteels, Giosuè sconfigge Amalek, tra il 1650 e il 1660. Stoccolma, Museo nazionale. Foto Erik Cornelius.

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