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La semina e la crescita

XI domenica del tempo ordinario

Ez 17,22-24; Sal 92 (91); 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

          A parte i vv. 10 e 21-23, che sembrano segnare anche un cambiamento di ambiente – dall’aperto all’interno di una casa, oltre che dal parlare alla folla a un gruppo ristretto –, Mc 4 è dominato dal paesaggio del lago di Tiberiade, da un’atmosfera quasi campestre e dalle metafore agricole.

          Al centro c’è il problema della Parola e dell’annuncio, dei loro esiti a seconda del modo di ascoltarla, e di chi se ne deve fare carico attraverso la lunga parabola del seminatore, e la spiegazione che la allegorizza (vv. 3-20).

          A questa sono legate due brevi parabole, poco più che metafore dilatate.

          Esse rimandano ai ritmi e ai misteri della creazione e sono accomunate dalla formula «sul terreno» (epi tes ghes, vv. 26.31), ed evocano rispettivamente le varie fasi della crescita dalla semina alla mietitura, sottolineando come in questo processo l’opera umana sia del tutto assente, e la totale sproporzione tra dimensione del seme e frutto del medesimo seme – e anche qui l’uomo ha poco da fare –.

          Nel primo caso, la terra fa tutto automate (v. 28), aggettivo di cui non c’è bisogno di chiarire il significato. Il seme non sa e neppure l’uomo sa (v. 27), al modo che neppure l’albero del Sal 1 sa quando sia la stagione del portare frutto, che è «a suo tempo» (bǝ῾itto, Sal 1,3). Si tratta di un ritmo di fecondità insito nella creazione, che è invece ben noto a Dio e che l’uomo può stravolgere con la sua efficienza. Anzi: meglio sarebbe se dormisse sereno.

          La terra e i vari elementi faranno il loro lavoro, che non può essere il suo. La cosa è accentuata dal fatto che quando arriva il tempo della mietitura e il frutto lo «permette», si può porre mano alla falce. Il verbo paradidomi (v. 29) ha qui questo significato raro, attestato solo in Erodoto e Polibio (Büchsel), che accentua come tutto sia sottomesso a un ordine creaturale in cui anche l’uomo deve integrarsi.

          Niente dunque può affrettare il tempo della fecondità, giudizio compreso, adombrato nella mietitura. Tutto giunge al suo momento, secondo il detto di Habc 2,3-4, perché «tutti i periodi di Dio giungeranno al momento giusto, come decise per loro nei misteri della sua salvezza», come si legge nel pešer Habakuk (1Qp Hab 7, 13)

          Nel secondo caso la parabola è costruita in climax con la precedente: dalla crescita graduale e compiuta alla crescita illimitata. Anche in questo breve mašal troviamo una ripetizione (otan spare, vv. 31.32 «quando/se é seminato»), che accentua quanto sia automatico il processo di crescita, posto che ci sia la semina.

          Il testo enfatizza non solo la sproporzione tra seme e pianta, ma il fatto che, in quanto piccolo, il seme è il più piccolo in assoluto e, in quanto grande, la pianta è la più grande.

          Se si pensa alla conclusione di Mc 3, con la reazione dei parenti di Gesù (Mc 3,20-21) e quella degli scribi (Mc 3,22-30), ovvero al sicuro insuccesso di predicazione e miracoli, le due piccole parabole suonano come rassicuranti: nonostante insuccessi e contrarietà, per quanto dure, il seme della parola cresce, non si sa come, fino a dimensioni inaspettate.

          Anzi, secondo la logica comune al Primo Testamento, occorre imparare a scoprire il successo nel fallimento perché Parola e Regno sono soggetti a una crescita graduale e, in certo modo, inevitabile.

          L’unica condizione o apporto umano è che ci sia chi semina, perché il seme deve cadere epi ghes; né spetta a chi semina determinare la qualità del terreno. È noto che all’epoca prima si seminava e poi si arava, per cui il seme poteva anche cadere in terreno occupato da pietre o da spine (Dalman e Jeremias).

          Questo insegnamento, come si è detto, viene dato da Gesù ai discepoli al chiuso, come fa pensare il logion della lampada e delle cose da mettere in luce (4,21-25), non solo in una cerchia ristretta di uditori, ma forse nell’intimità di una stanza (kat’idiantois idiois, v. 34).

          Dunque, da fuori a dentro, a oltre e ad altro: al v. 35 Gesù decide che tutti debbano passare all’altra riva del lago in una decisa presa di distanza da ambiente e persone quasi a indicare come oltre sia anche il senso del suo insegnamento.

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