b
Blog

La prima beatitudine

IV domenica di Avvento

Mi 5,1-4; Sal 80 (79); Eb 10,5-10; Lc 1,39-45

          All’interno della storia della salvezza molti interventi di Dio sono denominati «visite». L’ebraico usa il verbo pqd, tradotto per lo più dai LXX con episkeptomai, che significa «fare attenzione»», «osservare» «cercare» e «visitare» nel senso di andare a vedere, magari trattenendosi brevemente. La visita divina può essere negativa, se ci sono peccati da correggere, o positiva, in senso più direttamente salvifico. Si vedano per esempio Gen 21,1 e 50,25. Pqd ha comunque una certa fortuna, dato che si contano circa 268 occorrenze.

          Di fatto, in quanto fenomeno temporaneo, la «visita» divina è un modo per salvaguardare da una parte la cura che Dio ha per gli uomini, dall’altra la sua trascendenza.

          L’incarnazione cambia volto al problema – il Verbo incarnato è la visita –, talché nel Nuovo Testamento questo lessico si riduce a poche occorrenze, che riguardano di solito i rapporti tra persone (cf. Mt 25,36).

          Il testo di Lc 1,39-45, denominato tradizionalmente «visita di Maria a Elisabetta» in realtà non presenta alcun termine tipico delle «visite» bibliche. Si tratta di un racconto in cui abbondano i vuoti, che di certo nessuno è autorizzato a colmare, ma che pare una narrazione di «incontro» piuttosto che di «visita».

          Sembra –per fare un esempio del suddetto vuoto –, che Maria viaggi da sola, il che non è verosimile, né si dice dove sia andata precisamente: il testo si limita a parlare di un paesaggio montuoso in «Giuda». Per questo molti esegeti hanno pensato che questo viaggio sia modellato sulla traslazione dell’arca (2Sam 6,1ss), come ne fosse una rilettura, mentre Charles de Foucauld, in una sua meditazione, osserva che con questo viaggio Gesù passa per la prima volta, quasi evangelizzando benché non visto, in mezzo al suo popolo.

          In realtà Luca è interessato all’incontro tra due donne, certamente, ma soprattutto tra due bambini non ancora nati.

          Il primo segnale di questo interesse è l’insistenza sul saluto di Maria citato tre volte (aspasmos/aspazomai, vv. 40.41.44), senza peraltro precisare quale fosse.

          Segue la reazione del bambino di Elisabetta, detta con un verbo raro (skirtao), che compare solo qui e al v. 44, oltre a Lc 6,23. Questo verbo è raro anche nei LXX, dove ha senso positivo in Sal 114,4.6, ma non allorché si riferisce alla lotta tra i due gemelli in seno a Rebecca (Gen 25,22).

          Il redattore sottolinea poi la reazione di Elisabetta, che si esprime «con un grande grido» (krauge megale, v. 42) e non chiede propriamente perché, esprime piuttosto il suo stupore («da dove?» o «come mai?», pothen, v. 43), confessando in Maria la presenza del suo Signore (e meter tou kuriou mou, v. 43).

          Alla conclusione dei racconti di annuncio, i verbi che in essi erano al futuro, sono ora al passato e i due bambini sono già individuati nel loro essere: Signore l’uno, profeta l’altro.

          Maria poi non ha intrapreso questo viaggio semplicemente in fretta, ma con sollecitudine, con zelo, con diligenza (meta spoudes, v. 39), come obbedendo a un invito espresso implicitamente nelle ultime parole dell’angelo, di verificare cioè il segno che le è dato: la fine della sterilità di Elisabetta (Lc 1,36).

          I due bambini sono dunque eccezionali; riperpetuano il fenomeno di nascite speciali comune a tutte le culture e che leggiamo anche nelle Scritture.

          Lo schema di questi racconti è consolidato, benché non sempre proposto nella sua interezza. Predizione e annuncio iniziali si accompagnano al tema della rimozione della sterilità della madre o per volontà divina o per le preghiere della madre stessa o dei genitori. L’annuncio può essere diretto, come per Zaccaria e Maria, o indiretto come nel caso dei pastori o dei magi.

          Segue l’esposizione del nato a seguito di una persecuzione, ed è il caso di Mosè, o una fuga, ed è quello di Gesù. Fino al riconoscimento del bambino, che conferma l’annuncio iniziale.

          Le madri però non sono meno eccezionali dei loro bambini: a una di esse è riservato il primo macarismo, o beatitudine, che leggiamo in Luca (1,45); è formulato in terza persona (makaria e pisteusasa) quasi a universalizzarlo: chiunque crederà al compimento (teleiosis) di ciò che Dio dice, potrà esserne il destinatario.

 

 

Lascia un commento

{{resultMessage}}