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In memoria di Jürgen Moltmann: io mi domando…

La teologia, ormai, o è ecumenica o non è. Questa consapevolezza è l’eredità che molti teologi e teologhe riconoscono di aver ricevuto da Jürgen Moltmann, che ci ha lasciato il 3 giugno. Il suo lavoro è stato tutto a favore di un’unità nella pluralità: lo stesso desiderio che muove anche il pensiero delle donne. Perciò anche le teologhe fanno memoria grata della vita di questo studioso cristiano.

Per chi, come me, ha studiato teologia negli anni ’70 del secolo scorso, la morte di Jürgen Moltmann rappresenta un vero e proprio lutto. Perché Jürgen Moltmann è entrato a far parte della mia vita. Certo, non la concreta vita di tutti i giorni, ma la vita del pensiero, e del pensiero teologico. La sua teologia della croce, la sua teologia della speranza ci hanno insegnato a ragionare, cioè a mettere in questione e al contempo a cercare soluzioni, per rispondere alle domande teologiche che qualsiasi generazione si porta dentro. A partire dal confronto con le generazioni dei Padri, ma pensando anche alla generazione dei Figli e delle Figlie.

Un lascito testamentario

Un pensiero di Moltmann gira in rete in questi giorni, forse perché sentiamo che rappresenta una sorta di lascito testamentario. Soprattutto per noi teologi europei, cattolici protestanti ortodossi:

“Il protestantesimo è solo la mia provenienza, l’ecumenismo è il mio futuro. Per questo non mi interessa se uno è cattolico, ortodosso o metodista: voglio formulare una teologia cristiana, perciò traggo volentieri spunto anche dal mondo cattolico e ortodosso”.

Perché lo considero un lascito testamentario di Moltmann alla mia generazione, a noi che siamo stati i suoi discepoli virtuali, a quelli che hanno recepito tutto il suo sforzo di ripensare i nodi fondamentali della teologia protestante? In questo momento noi – la generazione dell’ecumenismo, quella che ci ha creduto, quella che è stata educata a riconoscere che la teologia ormai era diventata ecumenica e non poteva che essere così – noi viviamo con grande dolore lo stallo dell’ecumenismo che dura ormai da molti anni. In Europa le chiese, tutte, non hanno più la capacità di trovare i punti di incontro, di far risaltare, come diceva Papa Giovanni e come il Concilio ha provato ad assumere nella filigrana delle proprie decisioni, quello che le unisce più che quello che le divide. Per noi, scoprire quello che ci unisce aveva rappresentato poter contare su una pista di lancio; insistere, soprattutto nei gesti e nelle pratiche, su quello che ci divide rappresenta invece la palude dello status quo. Le parole di Moltmann diventano allora un giudizio. E, anche, una provocazione.

Mi domando per esempio – ed è un pensiero che non mi lascia dal giorno in cui noi cattolici abbiamo celebrato la festa del Corpus Domini – quando finalmente la festa del Corpo di Cristo non sarà legata soltanto alla tradizione cattolica, con tutto il retaggio che secoli e secoli di devozione si portano dietro; quando non sarà una festa solo cattolico-romana, ma sarà finalmente il riconoscimento condiviso di tutto ciò che l’espressione “corpo di Cristo” comporta. E sarà quindi la festa dell’ospitalità eucaristica, almeno lì dove la compresenza di comunità di diverse tradizioni cristiane dovrebbe ormai imporre di ospitarsi reciprocamente alla mensa eucaristica. Perché si può ma, soprattutto, si deve.

Aprirsi a un futuro comune

E, vedendo qual è la situazione in cui versano le nostre chiese storiche in Europa, nell’Europa cosiddetta unita, mi domando ancora se la separazione tra le diverse tradizioni cristiane non contribuisce, oltre che al loro declino e alla loro difficoltà per riuscire a presentarsi ancora come un punto di riferimento soprattutto per le generazioni più giovani, anche a ostacolare la crescita di un’Europa finalmente  viva, finalmente forte, forte della sua storia, del suo pensiero, dei suoi errori, del faticoso cammino di purificazione a cui l’hanno costretta i suoi stessi errori. Mi domando se anche l’ecumenismo, cioè la capacità delle chiese di mettersi in discussione e di aprirsi a un futuro comune, non possa rappresentare un elemento in grado di contribuire a far crescere la consapevolezza delle proprie possibilità e delle proprie responsabilità. Ben sapendo che molto ancora c’è da lavorare per fare veramente dell’Europa la realizzazione del sogno che l’ha fatta nascere.

Jürgen Moltmann ha ragione: la nostra generazione non può dirsi né protestante, né cattolica né ortodossa. Può dirsi soltanto cristiana e, proprio per questo, ecumenica. Perché lui, Hans Küng, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Luigi Sartori, Germano Pattaro e tanti altri ce lo hanno insegnato. Il loro sforzo di uscire dai recinti confessionali e di accettare il confronto è stato per noi il lievito che ha fatto fermentare la nostra riflessione teologica. Ha reso anche più salda la nostra opzione di fede e la nostra appartenenza ecclesiale.

Commenti

  • 28/07/2024 Giovanni Innamorati

    " noi viviamo con grande dolore lo stallo dell’ecumenismo che dura ormai da molti anni"

  • 18/06/2024 Graziella Moretti

    Mi si allarga il cuore leggere di questa visione larga e accogliente della comunità cristiana ispirata proprio al comune amore per il corpo e la vita di Gesù Cristo.

  • 10/06/2024 Ernesto Borghi

    Per chi come me ha iniziato a studiare teologia nella seconda meta' degli anni '80 Moltmann, da "Il Dio crocifisso" in poi e' stato un preziosissimo punto di riferimento. Tra le sue pubblicazioni divulgative consiglio con passione "che cos'e' il cristianesimo per noi oggi?" (Queriniana, 1995). Concordo integralmente con le parole di Marinella Perroni.

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