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Il testimone della verità

Cristo re dell’universo

Dn 7,13-14; Sal 93 (92); Ap 1,5-8; Gv 18,33-37

Al centro del racconto della passione secondo Giovanni – che si articoli in 7 o in 11 quadri non è qui rilevante – sta la coronazione di spine: su questo tutti gli interpreti concordano. Essa è come preparata dal dialogo tra Pilato e Gesù, che verte appunto sull’essere re.

          La tematica del regno di Dio è poco presente nel quarto Vangelo, viene in primo piano solo alla fine in relazione alla persona di Gesù: Giovanni infatti racconta il dialogo con Pilato, che è evidentemente giocato sugli equivoci.

          Il prefetto romano ha una preoccupazione politica. Gesù non lo segue su questo terreno, e mentre nei Sinottici o tace o risponde in modo da aggravare la propria posizione, qui sta al gioco solo in apparenza: per lui il Regno non è, evidentemente, un fatto territoriale, ma questo è del tutto estraneo alla mentalità di Pilato.

          Equivoci nei termini, ambiguità nelle domande e nelle risposte, non ultimo il problema della lingua in cui si svolgerebbe il dialogo e un filo di ironia rendono l’episodio passibile di una lettura diversificata.

          Il problema delle lingue dei due protagonisti è il primo a emergere. Con ogni probabilità se il colloquio davvero c’è stato hanno parlato greco, che era la lingua diffusa nelle piazze e nei mercati, con inflessioni aramaiche Gesù e latine Pilato. Quasi certamente il latino, lingua dell’amministrazione, non era alla portata di Gesù e perciò sarebbe stato necessario un interprete a cui il testo non fa cenno; ugualmente è improbabile che Pilato parlasse aramaico.

          Regalità e verità sono al centro di questo scambio di battute e sono ambedue termini scottanti. La verità, per un militare romano, naturalmente diffidente verso la filosofia e in generale verso il pensiero astratto (cf. Gv 18,38), non è che qualcosa verso cui manifestare scetticismo, quandanche la domanda di Pilato fosse sincera. Per un ebreo la verità è il piano salvifico di Dio che gli è rivelato nelle Scritture, dunque qualcosa non solo di conoscibile, ma di sperimentato e sperimentabile: una memoria e una promessa nell’alleanza mai revocata e sempre rinnovata.

          Verso la regalità invece tanto il mondo romano quanto il mondo ebraico hanno avuto ed espresso le loro perplessità, se non un’aperta avversione (cf. per esempio 1Sam 8,10ss). Gli ideali repubblicani da una parte, l’affermazione che il re rende visibile la regalità di Dio sul suo popolo dall’altra, erano ancora abbastanza freschi a Roma e molto più in Giudea, in cui era sempre avvertito il rischio dell’idolatria.

          Dietro alla formula «re dei Giudei» (o basileus ton Ioudaion, v. 33) c’è un’ideologia complessa che sfugge a Pilato; Gesù sembra accettare il titolo (v. 34), ma mette anche in dubbio il significato che il prefetto gli dà.

          Alla reazione di Pilato, che rimuove una responsabilità diretta nei confronti di Gesù (v 35), egli pone il vero problema: quello della sua regalità che non è «da questo mondo» (ek tou kosmou toutou, v. 36), dove la proposizione ek indica più che l’origine la legittimazione (Lindars). Non è «questo mondo» (ha῾olam hazeh) a legittimare il potere del regno di Gesù, come fosse quello del prefetto nominato dall’imperatore o l’esercito ai suoi ordini, ma è la verità stessa, ovvero il piano stesso di Dio che in Gesù trova compimento, a legittimarne la regalità.

          È dunque Gesù, in coerenza con il proprio potere, a guidare la discussione e non a caso nell’affermazione conclusiva (v. 37) circa la propria regalità omette di specificare «dei giudei».

          Se la sua regalità ha una relazione speciale, essa è con la verità di Dio, come detto sopra, a cui «dare testimonianza» (ina martureso te aletheia, v. 37) – termine che potrebbe avere qui valore forense, visto il contesto –: egli infatti è il primo a «essere dalla verità» (o on ek tes aletheias, v. 37) e «essere dalla verità» non è «una semplice provenienza» che legittima, «ma una situazione stabile, un modo di essere (…), dice la permanenza e la totalità» (Maggioni).

          Una regalità dunque in cui tutta una storia salvifica si ricapitola e trova la sua ragion d’essere: quella stessa storia che l’evangelista ha rivisitato lungo tutto il suo racconto, da un segno all’altro, da un discorso all’altro.

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