Il senso di una visione

II domenica di Quaresima
Gen 15,5-12.17-18; Sal 26 (27); Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
Per questa seconda domenica di quaresima la liturgia ci propone l’episodio della «trasfigurazione» secondo il racconto di Luca. Il monte sul quale collocare l’episodio è oggetto di discussione, anche perché nel testo non viene precisato (come anche in Mt 17,1 e Mc 9,2, che si limitano a definirlo solo «un alto monte»). Secondo la narrazione lucana siamo alla fine dell’attività messianica in Galilea e Gesù, dopo questo episodio, dirigerà lo sguardo e il suo cammino verso Gerusalemme.
È dunque una tappa importante del suo itinerario, e ad accompagnarlo sono solo i suoi fedelissimi discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, gli stessi che erano presenti nella casa di Giairo, capo della sinagoga di un non ben determinato villaggio, e che nel Vangelo di Marco gli saranno vicini nel momento più drammatico prima dell’arresto sul monte degli ulivi (Mc 14,33).
Ci si aspetterebbe, dunque, che questi tre discepoli eccellano per sensibilità e fedeltà, e abbiano davvero compreso «colui» che hanno scelto di seguire. Di fatto, però, sappiamo che non è così. Proprio prima dell’episodio della trasfigurazione, nel racconto di Mt 16,23 e Mc 8,33 Pietro viene chiamato da Gesù «satana» perché si rifiuta di accettare l’idea che il suo messianismo, dal punto di vista umano e terreno, non sarà trionfante, ma passerà attraverso il rifiuto, la passione e la morte. Inoltre sarà proprio Pietro a rinnegarlo per tre volte.
Anche Giacomo e Giovanni non fanno una bella figura, se si considera il fatto che la loro madre (Mt 20,20-21) o loro stessi (Mc 10,35-37) sono preoccupati del loro ruolo e della loro «sedia» accanto a Gesù. Non c’è dunque da meravigliarsi se anche in questo episodio su di un «alto monte» i «tre» non sembrano capire molto cosa stia avvenendo. E questo non solo perché, come scrive Luca, «erano oppressi dal sonno», ma anche perché al loro risveglio, di fronte a una visione così insolita – Gesù, Mosè ed Elia, tutti e tre avvolti nella loro gloria –, l’unica cosa che viene loro in mente di fare è costruire tre tende e rimanere lì in contemplazione.
Ed è proprio su questa scena che vorrei fermarmi. A nessuno dei tre viene in mente di chiedere che ci fanno «due morti» accanto a uno vivo, e nemmeno che relazione possono avere i tre tra loro. La scena è bella, suscita meraviglia e forse anche pace, serenità; la visione li appaga, li fa sentire bene, e questo gli basta. Ma, commenta Luca, riferendosi alla proposta di Pietro di fare delle tende, «non sapeva quello che diceva».
Alla fine ci pensa «la nube» a scompigliare le cose e a rovinare l’atmosfera, dato che «all’entrare nella nube, ebbero paura»; inoltre c’è anche la voce dal cielo, la stessa voce dell’episodio del Battesimo di Gesù, che invita all’ascolto – «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!», – e dopo la quale di fronte a loro rimane solo Gesù.
Quante domande si sarebbero potute fare: perché la «gloria» di Gesù è collegata a quella di Mosè e di Elia? Perché poi proprio Mosè ed Elia? E perché questa «voce» di nuovo, proprio ora? Che cosa implica l’invito ad ascoltare Gesù accanto a Mosè e a Elia? Ma «essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto». Non so se il loro silenzio sia dovuto alla brutta figura che hanno fatto o alle tante domande a cui finalmente cercano, in una taciturna riflessione, una risposta.
Ma questo racconto, visto dalla prospettiva di questi tre discepoli, può aiutarci a riflettere su come ci poniamo di fronte a Gesù e alla nostra fede in lui. A volte la ricerca di «fare» delle tende, di costruire strutture o di lasciarci affascinare da belle chiese, con particolari atmosfere o sfarzose liturgie, può distoglierci da ciò che veramente è importante, ovvero l’ascolto della sua «voce», una «voce» che si illumina all’interno di una storia e che, a sua volta, illumina proprio quella storia. È la storia di Dio con il suo popolo, la storia di Mosè, la storia di Elia e degli altri profeti, la storia di Gesù costituito Messia di Israele e delle genti.
Non dunque tre tende, ma un’unica tenda in cui è racchiusa tutta la storia di salvezza e dove si può contemplare Mosè nella sua gloria, una gloria caratterizzata dalla fedeltà a Dio, da una parte, e dalla fedeltà al suo popolo, espressione e coronamento di una storia lastricata da incomprensioni, mormorazioni, momenti di rabbia e gesti di grande generosità nel mediare sempre e comunque a favore del suo popolo.
Dove si può anche contemplare la gloria di Elia, profeta del Signore, autentico e zelante nel difendere la sua unicità nei confronti del sincretismo religioso e politico della regina Gezabele. Una vita messa costantemente in pericolo per la fedeltà al Signore, in cui non mancano gli scoraggiamenti, lo sconforto, ma che nella solitudine di un fuggiasco è capace di udire quella «voce di silenzio» che Dio sa sussurrare ai suoi orecchi per consolarlo.
In questa tenda ci sono i «vivi», tutti coloro che hanno attraversato la morte e vivono la pienezza della gloria: come Mosè che muore, letteralmente, «sulla bocca di Dio» e di cui nessuno sa dove sia la tomba; come Elia che viene trasportato in un turbine direttamente in cielo e come Gesù, la cui tomba è vuota perché è risorto.
Entrare in quella storia, riconoscere quei volti, la loro fede, le loro sofferenze e difficoltà, il loro legame con Dio è l’unica strada per entrare in quell’unica «tenda» che ci attende. Una tenda non fatta da mani umane, ma da Dio stesso, dove potremo contemplare la sua gloria: «Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio”» (Ap 21,3).