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Il quando e il come

I domenica di Avvento

Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79 (80); 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

          Abbiamo concluso il viaggio all’interno del Vangelo secondo Matteo con una domanda in sospeso – «dicci quando» (Mt 24,3) e avevamo anche constatato che al «quando» non si dà risposta se non con il «come». Cominciamo il nostro viaggio all’interno del Vangelo secondo Marco nello stesso clima.

          Un discepolo ignoto, dopo che Gesù ha parlato della distruzione del Tempio, chiede: «Di’ a noi quando (pote) accadranno queste cose e quale sarà il segno che queste cose stanno per compiersi» (Mc 13,4). Al di là dei rapporti genetici tra i due Vangeli, al di là persino del problema della datazione di Marco rispetto alla distruzione del Tempio su cui ancora si discute, è conveniente ricordare che l’attesa escatologica era molto forte al tempo di Gesù e che l’occupazione romana con quello che l’accompagnava era da molti avvertita come «le doglie del Messia» (cf. v. 8, «l’inizio dei dolori», arche odinon). Il chiedere «quando» era e forse è ancora, di fronte ai drammi della storia, una domanda legittima, presente già nel Primo Testamento (cf. Lam 5,20). Il fatto che resti senza risposta equivale a un invito a concentrarsi sul presente, senza preoccuparsi di un futuro che, per quanto atteso, è comunque lontano.

          Anche Marco quindi si concentra sul «come» vivere il tempo, dedicando a questo tutto il c. 13, nel quale si susseguono le esortazioni a non lasciarsi ingannare (v. 5), non allarmarsi (v. 7), badare a sé stessi (v. 9), non preoccuparsi (v. 11).

          Tutto il capitolo è costruito su verbi all’imperativo che si alternano a verbi al futuro. Tra gli imperativi uno in particolare sembra caro a Marco: blepete «guardate», tradotto qui «fate attenzione», perché ricorre otto volte nel suo Vangelo, delle quali quattro in questo c. 13 (4,24, 8,15.18; 12,8; 13,5.9.23.33).

          È un indiretto invito a chiedersi dove stiamo guardando: certamente non a un futuro così lontano da essere irraggiungibile, ma neppure con miopia a un presente immediato, perdendo di vista uno sguardo prospettico. Dato che «non sapete» (ouk oidate, vv. 33.35), o non sappiamo, è necessario acquisire un modo di guardare la realtà in maniera sapiente, appunto con una particolare vigilanza.

          La realtà vive in un clima notturno in cui è chiesto di vegliare in due modi. Marco ricorre infatti a due verbi all’imperativo. Il primo è un temine abbastanza raro (agrupneo, hapax in Marco e poi solo in Lc 21,36, Ef 6,18, Eb 13,17): indica l’essere insonne e quindi il «vegliare», per esempio, dei pastori che passano la notte all’aperto attenti ai rumori che il buio ingigantisce, il mantenersi all’erta. Il secondo è gregoreo, che compare tre volte in pochi versetti (24.37.40) ed evoca piuttosto il vegliare della sentinella, della quale si ricordano le diverse vigiliae (v. 35).

          In questo clima il credente è chiamato al servizio di un padrone che è andato all’estero (apodemos, v. 34): il termine compare solo qui nel Nuovo Testamento e fa pensare a qualcuno che è partito dal proprio paese per soggiornare altrove, a un es-patriato, un emigrato il cui ritorno può essere non solo improvviso, ma soprattutto imprevisto.

          Infine: sappiamo che gli evangelisti danno dettagli solo se funzionali al racconto o al discorso in atto.

          Mc 13,3 precisa che Gesù è sul monte degli Ulivi, seduto in vista del Tempio. Normalmente il monte è inteso come il luogo dell’insegnamento, forse per via della postura (cf. Mt 5,1), ma Gesù è anche di fronte e in vista della valle del Kidron, parte della quale è identificata da alcuni con la valle di Giosafat. Il monte è anche il luogo dell’ultimo combattimento e dell’apparizione del Messia (cf. Zc 14,4), così come la valle è il luogo del giudizio ultimo (Gl 3,2).

          Questo può motivare il «quello che dico a voi lo dico a tutti» (o de umin lego pasin lego, v. 37), con un allargamento di orizzonte su un uditorio universale dopo che nel corso del capitolo si è passati da un discepolo (v. 1), a un ristretto gruppo di quattro (v. 3), a un imprecisato «loro» (v. 5) che possono essere i quattro precedenti, ma anche un gruppo più vasto, e a questo «tutti» conclusivo (v. 37). Dal monte degli Ulivi lo sguardo si allarga sullo spazio e sul tempo.

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