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Il pastore che si fa agnello

IV domenica di Pasqua

At 4,8-12; Sal 118 (117); 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

          Forse non viene spontaneo associare l’immagine del pastore, bello o buono che sia, a un discorso polemico. In generale Gesù parla dei pastori, di cui descrive la fedeltà e la dedizione, con simpatia: da quello che cerca la pecora perduta (Lc 15,4-6 e Mt 18,12-14) al protagonista di questo capitolo di Giovanni, perché ha una vera cura del gregge, lo difende, ne conosce i capi uno per uno, essi riconoscono la sua voce, è disposto a morire per loro. Non è così per il salariato (misthotos, v. 12.13): il termine non è in sé negativo e si tradurrebbe «mercenario» solo nell’ambito del lessico militare. Esso invece si applica anche ai salariati di Mc 1,20.

          In ogni caso tra pastore e gregge c’è un legame di reciproca appartenenza, difficile a realizzarsi con un salariato occasionale.

          In questo senso il discorso è polemico e deve essere letto in controluce alla requisitoria di Ez 34 e altri testi profetici (Ger 3,15, 23,4; Zc 13,7), oltre che alla mentalità dell’epoca di Gesù, in cui non si aveva stima per i pastori che facevano un mestiere «impuro» e spesso pascolavano di frodo.

          Ezechiele elenca dapprima tutte le fasi dello sfruttamento del gregge da parte dei cattivi pastori: essi pascono sé stessi, «consumano» le pecore e non si prendono cura dei capi deboli e feriti, non cercano le pecore smarrite, e sono incuranti e crudeli fino alla totale dispersione del gregge (Ez 34,2-6).

          Perciò Dio si pone contro i pastori e li giudicherà, e si prenderà cura del gregge personalmente per raccoglierlo sui monti d’Israele (Ez 34,7ss).

          La stessa promessa divina riguarda un pastore messianico (Ez 34,23s) che quasi si sovrappone a Dio stesso e che, per il fatto di essere «pastore», è un messia che non ha una forte connotazione politica, anzi secondo Zc 12,10 sarà «trafitto» (̛̛alay et ̛ašer daqaru «a me che trafissero»). Il testo di Zaccaria è più che audace, perché direbbe che qualcuno ha trafitto Dio stesso, perciò viene corretto sia dai LXX «a me che hanno schernito ballando» (pros me anth’on katorchesanto), sia da Gv 19,37 «a colui che hanno trafitto» (eis on exekentesav), col pronome che marca una distanza. Tuttavia sarà la sua morte a inaugurare un tempo nuovo (Zc 13,1-6).

          Come che sia, o Dio o pastore messianico, questo personaggio è così dedito al gregge da porre la sua vita per le pecore.

          Compito del pastore messianico è anche quello di giudicare e separare pecore da capri (Mt 25,32). Implicitamente si tratta anche in questo caso di rinnovare il mondo e di radunare il gregge di Dio.

          Gesù-pastore e il salariato si contrappongono come il pastore d’Israele e i cattivi pastori del Primo Testamento, anzi lo scopo messianico di Gesù pare primieramente quello di raccogliere un gregge disperso come segno salvifico. Per questo complesso e gravoso compito Gesù pone la sua vita in adesione all’amore del Padre.

          Nel giro di due versetti (vv. 17-18) troviamo due volte il verbo tithemi «io pongo», che al v. 17 è messo in relazione con lambano (labo, congiuntivo aoristo). La stessa coppia torna al v. 18, in cui lambano compare due volte. La traduzione corrente di questo verbo è «riprendere» («pongo la mia vita/riprendo la mia vita»), ma la cosa non è scontata.

          È vero che il primo senso di questo verbo è «prendere», «afferrare», ma nei LXX diventa piuttosto «ricevere», «accettare», «accogliere». Nel Nuovo Testamento compaiono entrambi i significati, ma il secondo è prevalente. Tutto si riceve da Dio e questo è vero persino per Cristo, specialmente in Giovanni. Si veda il particolare la chiusa del v. 18: «questo è il comando che ho ricevuto (elabon) dal Padre mio».

          Anche la vita che egli pone quindi è una vita che sarà da ricevere: il Cristo non risorge per volontà o per forza propria, ma perché questo è il segno dell’amore del Padre, quello stesso amore per il quale Gesù pone la sua vita. La teologia paolina insiste molto su questa ricezione sia per quanto riguarda Gesù (cf. per esempio Rm 1,4), sia per quanto riguarda i battezzati (cf. per esempio 1Cor 4,7).

          Colui che si consegna e pone la sua vita, che da pastore si fa agnello, riceve la sua identità di figlio e stabilisce una relazione con le pecore tanto profonda come lo è la sua relazione con il Padre.

 

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