Il miracolo del dono condiviso
Santissimo corpo e sangue di Cristo
Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17
Tutta la rivelazione biblica è attraversata dal tema del «cibo». Dal primo dono che Dio fa agli esseri viventi, dopo averli creati (Gen 1,29-30) fino al banchetto escatologico dell’Apocalisse: «Venite, radunatevi al grande banchettodi Dio» (Ap 19,8). Se il cibo è l’elemento fondamentale che mantiene in vita ogni essere vivente, il desiderio e la condivisione di questo cibo diventa il segno della comunione che s’instaura attorno a una mensa.
Prendersi cura dell’altro, preoccuparsi che abbia qualcosa da mangiare è il primo e fondamentale atto di solidarietà e di condivisione di ciò che fondamentalmente è la promozione e la custodia della vita. Se il dono del cibo è il dono della possibilità di vita, la condivisione del cibo non solo è accoglienza di questo dono, ma è anche il riconoscimento di una comune condizione di vita. Il cibo è di fatto qualcosa che rimanda sempre all’altro, alla madre per un bambino, alla natura che produce cibo e, non ultimo, alla convivenza sociale. Ciò che mangiamo infatti proviene sì dalla creazione, ma anche dal lavoro di altre persone, proprio come si recita nella preghiera dell’offertorio: «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo».
Tutto questo come preambolo per comprendere quanto profondamente umano – e proprio per questo, profondamente divino – è lo sguardo attento, solidale, empatico e premuroso di Gesù verso la folla di persone che lo avevano seguito. Nel Vangelo di oggi, infatti, si legge: «Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”».
A quanto scrive Luca Gesù ha davanti a sé «cinquemila uomini» – e forse anche donne e bambini –, che lo avevano seguito per ascoltare i suoi insegnamenti, ma l’ora si fa tarda, la zona in cui si trovano è distante dai villaggi vicini e le persone hanno bisogno di mangiare. La soluzione che i discepoli propongono è che ognuno cerchi per suo conto il ristoro necessario: che ognuno, in altre parole, si arrangi.
Ma il cibo, come abbiamo detto, non è solo una questione primaria e vitale, è anche un legame di comunione, è ciò che fonda la solidarietà della condizione umana e, in una visione più ampia, di tutto ciò che vive. Se le parole di Gesù sono parole di vita, favoriscono la vita e una vita in pienezza, come sarebbe possibile lasciare che quelle persone che lo hanno ascoltato fino a quel momento se ne vadano senza ciò che è basilare per mantenersi in vita?
Non solo, ma la risposta di Gesù apre anche a un altro livello che abbiamo già accennato, ovvero al cibo come elemento di comunione e di solidarietà. Ecco infatti come risponde ai discepoli: «Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”». Una frase che volutamente può essere intesa in due sensi: sia nel senso più pragmatico, e cioè che devono essere i discepoli a procurare a quella folla del cibo, sia in un senso più «integrale», e cioè che i discepoli stessi devono diventare cibo per quella gente, non solo dando loro «qualcosa», ma dando loro interamente se stessi.
La capacità di comprensione dei discepoli è limitata solo al primo senso, quello più immediato e materiale: «Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”». Ma forse è giusto anche che abbiano risposto in questo modo; in fondo si può partire solo da ciò che si ha, da ciò che si capisce, l’importante è però che questo sia solo il punto di partenza e non quello di arrivo.
Ed è proprio da quello che i discepoli materialmente hanno che sarà possibile tutto il resto, che sarà possibile sfamare tutte quelle persone. Un punto però fondamentale in quel che segue nella narrazione evangelica è proprio ciò che Gesù fa con quei «cinque pani e due pesci»: «Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla».
Prendere i pani e i pesci e recitare la preghiera di benedizione significa riconoscere che quel cibo è dono; un dono di vita per tutti e quindi, come tale, va condiviso, «spezzato», reso fonte di comunione e di solidarietà.
Il miracolo, alla fine, è proprio questo: la «sazietà» di tutti – «Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» –; una sazietà che è abbondanza, che permette vita e che resta, perché tale vita sia senza fine.
