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Il mandato di Gesù

Matteo non dice nulla riguardo all’assunzione. Come conciliarlo con il racconto di Marco e Luca?

Ascensione del Signore

At 1,1-11; Sal 46 (47); Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

Il Vangelo di Matteo non dice nulla riguardo all’assunzione di Gesù al cielo. Il testo matteano finisce qui, con l’ultima assicurazione che Gesù fa ai suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Come conciliare questo con il racconto di Marco e Luca, che invece descrivono Gesù mentre viene elevato in cielo nei pressi di Gerusalemme (secondo Luca «verso Betania»)? Sono i due aspetti di una stessa «realtà» o forse, meglio dire, due «effetti» della risurrezione.

Da una parte l’assunzione di Gesù risorto alla destra del Padre indica il compimento ultimo della salvezza: l’entrata dell’umanità risorta del Figlio nel seno del Padre, porta aperta e «luogo» di accesso per tutta l’umanità. Dall’altra, tale «assunzione» non implica una distanza, un allontanamento, ma permette al contrario una «permanenza» del Risorto che abbraccia in sé tutta la storia umana, ogni «istante», «tutti i giorni fino alla fine del mondo».

Ai discepoli non rimane che annunciare al mondo questa «buona novella»: le porte del «cielo», la comunione e la pienezza di vita con il Dio della vita, per sempre, è una realtà «umana», aperta a tutti. Questo, ovviamente, comporta la risposta di ciascuno, quel «potere», come dice Giovanni nel prologo, di accogliere nella libertà tale buona notizia: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12). 

Analizziamo un po’ più da vicino quanto Gesù chiede ai suoi discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato».

Il primo invito è quello di «andare», ovvero di essere in cammino: la comunità dei credenti, la Chiesa, è dunque di per sé missionaria. Un termine che racchiude in sé due aspetti; il primo è che «essere missionario» significa «essere inviato» (dal latino missus = mandato); l’altro aspetto è il carattere dinamico, di movimento, di cammino che l’«essere mandato» comporta in sé.

La seconda richiesta di Gesù è «fate discepoli tutti i popoli», promuovendo così un’apertura universale ad accogliere il suo messaggio di salvezza. E questo, di conseguenza, implica necessariamente l’aprirsi a tutte le etnie e alle loro espressioni linguistiche e culturali. Il «fare discepoli» comporta però, per coloro che lo diverranno, ricevere il battesimo «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», cioè, come accennato sopra in riferimento a Giovanni, implica la libera adesione di ogni persona ad accogliere l’invito da parte di Dio di diventare suoi «figli».

Solo questi primi elementi potrebbero essere una buona base per riflettere su quale è stata nei secoli l’azione missionaria della Chiesa, che cosa comporta l’«essere in cammino», che cosa sia davvero l’inculturazione «evangelica»; ma andiamo avanti.

L’ultimo elemento che «produce» il discepolato è «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». Il discepolato richiede una conoscenza e una formazione adeguata, senza le quali non vi può essere una vera condizione di libertà, che permetta una decisione consapevole e responsabile nell’aderire al dono della «figliolanza» che il battesimo produce. Centrali dunque sono la formazione, l’insegnamento, e la conoscenza che da questi deriva.

A questo proposito è illuminante il passo molto famoso, ma anche spesso e volentieri non compreso correttamente, di sant’Agostino: «Intellege ut credas, crede ut intellegas» (Comprendi per credere, credi per comprendere; Sermones 43, 7, 9). Ed è lo stesso Agostino a spiegarne il senso: «Voglio dirvi brevemente come si debba intendere l’una e l’altra espressione perché si eviti il contrasto. Comprendi la mia parola, affinché tu possa credere; credi alla parola di Dio per poterla comprendere».

Vi è dunque una mediazione umana, utile e indispensabile proprio perché necessaria a comprendere, che i discepoli (di ieri come di oggi) devono offrire a tutti coloro che lo desiderano; una formazione che non sostituisce, ma anzi apre alla propria libera adesione di fede, ovvero alla possibilità di comprendere la parola di Dio, l’annuncio evangelico.

Il mandato missionario, l’azione evangelizzatrice che il Risorto affida ai suoi discepoli non può pertanto prescindere, ma anzi si fonda sull’importanza di offrire una vera e sostanziale formazione affinché, nella libertà che la conoscenza produce, ci possa essere un’autentica adesione di fede. C’è allora da chiedersi: quanto, nella Chiesa, si è investito o si investe nella formazione del popolo di Dio? E quanto questa mancanza ha a che fare con una sempre maggiore carenza di «fedeli»? Forse dovremmo ancora riflettere su quanto, in un altro passo, sant’Agostino scrive: «La fede richiede istruzione» (Sermones 272, 1).

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