Il male della banalità . Nella Chiesa, per esempio
La riduzione della fede a una sorta di gioco dei quattro cantoni tra luoghi comuni catechistici e stimolazioni emotivamente gratificanti, portata avanti da una versione tutta clericale dei moderni influencer, non contribuisce a dare forza al corpo di Cristo, ma lo indebolisce giorno dopo giorno.
Ci penso da molto tempo, e non perché mi diverta a giocare con le parole. Hannah Arendt ha coniato l’espressione: “la banalità del male”. Un’espressione all’apparenza leggera, ma che invece si è imposta perché è la situazione in cui vengono pronunciate che mette in piena luce la caratura delle parole. Gli argomenti che i gerarchi nazisti portavano a propria difesa dopo l’orrore della Seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio inducevano grande sgomento proprio per la banalizzazione che facevano dell’immenso male compiuto. Il 4 dicembre scorso, giorno anniversario della morte della filosofa tedesca naturalizzata statunitense, inevitabilmente questa frase è rimbalzata a più riprese sui social. E, sulla spinta di una serie di pensieri che da tempo mi occupano e mi preoccupano mi sono detta che quell’espressione poteva essere ribaltata in “il male della banalità”.
L’insidia dei luoghi comuni
Sì, da tempo mi preoccupano la mancanza di una ricerca teologica degna di questo nome, di una divulgazione religiosa di qualità, di una spiritualità capace di bandire i luoghi comuni e di prospettive ecclesiali coraggiose. Anzi dilaga una predicazione mediocre, che ha la pretesa di essere edificante, perché cattura con l’insidia dei luoghi comuni. La banalità, appunto, ma una banalità che, oltre a fare male, fa del male. Abbiamo visto quale ricaduta ha comportato sul tessuto culturale del nostro Paese il decadimento del livello della comunicazione di massa: perché non rendersi conto in tempo del fatto che anche nella comunicazione della fede ogni gioco al ribasso illude, perché è “a presa rapida”, ma non può poi che deludere perché non nutre realmente le radici della professione di fede, della spiritualità, della pratica liturgica, del comportamento etico?
Infatti, in questo tempo così difficile per il mondo intero, ma anche così opaco per le Chiese sembra proprio che l’intelligenza della fede e la politica della fede siano condannate a sottostare alla banalità. Lo ho affermato una volta nel corso di una conferenza pubblica e, alla fine, due editori cattolici sono venuti a chiedermi di fare presto a scriverci su un libro perché erano interessati a pubblicarlo immediatamente. Mi ha fatto piacere. Non per vanagloria, ma perché era un segnale – e, in effetti, per me non è stato né il primo né l’ultimo – che il disagio è condiviso: non sono io la sola a ritenere che la situazione sia grave perché confondiamo spesso i sintomi – come le chiese vuote o la mancanza di vocazioni – con la malattia, oppure crediamo di vivere una sorta di convalescenza post-pandemica e non ci rendiamo conto, invece, che la pandemia ha solo accelerato il processo, non lo ha causato.
Il fascino dell’effimero
Ho cercato di chiarirmi un po’ per volta perché la banalità è pericolosa. La riduzione della fede alla ovvietà di una sorta di “gioco dei quattro cantoni” tra luoghi comuni catechistici e stimolazioni emotivamente gratificanti, portata avanti da una versione tutta clericale dei moderni influencer, non contribuisce a dare forza al corpo di Cristo, ma lo indebolisce giorno dopo giorno. Cerco anche di capire perché i pastori non si rendano conto del pericolo di affidarsi al fascino dell’effimero, consolante forse, perché almeno per una serata riempie le chiese; inquietante però, perché favorisce una credenza religiosa debole e fluttuante.
Ce lo siamo sentiti ripetere da fior di analisti che la crisi della partecipazione democratica con tutto ciò che comporta è stata favorita proprio dall’indebolimento progressivo della qualità delle cinghie di trasmissione comunicative che innervano e irrorano il tessuto sociale. Perché non facciamo lo sforzo di domandarci cosa può significare tutto questo se rapportato al corpo ecclesiale?
La paura della complessità
Papa Francesco ha cercato di mettere al centro del suo magistero quella “teologia del popolo” nella quale si è espressa la specifica visione argentina della teologia della liberazione e che dovrebbe, però, farci riflettere a fondo. Si tratta di interrogarsi su quale specificità prende la terminologia socio-culturale “popolo/popolare” se riferita a una società post-moderna, come quella italiana, in cui la rigidità ideologica dei dogmi e dei vincoli economico-finanziari è direttamente proporzionale alla fluidità delle reti relazionali, anche di quelle primarie, nonché allo speculare indebolimento dei soggetti individuali sempre più sospinti verso derive narcisistiche.
La forza anestetizzante di questo modello, che ha assunto ormai tratti totalitari, è sotto gli occhi di tutti ed è favorita proprio da potenti dosi di banalizzazioni e di semplificazioni comunicative che illudono di poter evitare di confrontarsi con la complessità. È certo, però, che al dilagante processo di scristianizzazione non si risponde rispolverando ideologie religiose ormai stantie o armando inutili crociate, ma con un robusto investimento di risorse economiche e umane in una formazione culturale di cui faccia pienamente parte anche la ricerca teologica seria, capace di affrontare problemi e questioni degli uomini e delle donne del nostro tempo e del nostro contesto socio-culturale.
Il mito di una “fede bambina”
Mi vengono allora in mente le parole di Paolo che, sullo sfondo di questo nostro contesto attuale, risuonano anche come un monito alle Chiese che continuano ad avere paura che i credenti escano dallo stato di minorità: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (1Cor 13,11). Ho la sensazione che al mito della “fede della vecchietta”, che veniva contrapposta alla decisione da parte di credenti della mia generazione di intraprendere, come laici e soprattutto come donne, il cammino degli studi teologici, il paternalismo ecclesiastico abbia oggi sostituito il mito di una “fede bambina” che rifugge ogni sforzo di credere «con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» (Mc 12,30 e par; cfr Dt 6,4s e Lv 19,18).