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Il giorno del riscatto

Domenica di Pasqua

At 10,34.37-43; Sal 118 (117); Col 3,1-4 o 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9

          Prendersi cura dei propri morti è uno degli atti più seri e importanti della pietà ebraica. In antico era riservato alle donne ed era operazione lunga e complessa. Il corpo doveva essere lavato, eventuali ferite cauterizzate, veniva raccolto il sangue che ne fosse fuoriuscito per essere sepolto, e ancora la salma veniva profumata e cosparsa di unguenti e infine avvolta in un lenzuolo insieme con l’indumento rituale chiamato tallet, se si trattava di un uomo, per essere deposto nel sepolcro.

          Alla morte di Gesù, nell’imminenza dello shabbat, tutte queste operazioni forse sono state ridotte al minimo e per essere riprese in un secondo momento. La cosa, verosimile o no, almeno fa capire perché Marco e Luca parlino di più donne e degli aromi (Mc 16,1s; Lc 24,1), mentre Matteo (28,1) parla di due donne che vanno a «visitare la tomba». Giovanni invece nomina solo Maria di Magdala (20,1) senza alcuna motivazione.

          A parte Marco, che dice solo che il sabato è passato, gli altri evangelisti parlano del giorno dopo il sabato specificamente (te de mia ton sabbaton Lc 24,1 e Gv 20,1; eis mian sabbaton Mt 28,1 – e per una volta concordano su un dato cronologico).

          Šabbat è forse l’unica parola della Scritture ebraiche che non è stata tradotta, ma semplicemente riprodotta, e questo perché esprime una realtà unica e intraducibile (Heschel), tuttavia questo termine oltre indicare il giorno specifico, nel Nuovo Testamento può voler dire anche «settimana».

          Resta il problema dell’aggettivo numerale mia, che viene in genere tradotto «primo» (numero ordinale), mentre di per sé è il femminile di eis «uno» (cardinale).

          Ovviamente le discussioni proliferano. Quasi tutti riconoscono che eis raramente nel Nuovo Testamento vuol dire «uno», significa piuttosto «unico, «unitario», «speciale». Infatti il cristianesimo delle origini è preso dalla coscienza dell’eccezionale importanza dell’accadimento singolo e unico (Stauffer).

          Nel nostro caso specifico tuttavia (e la tradizione è concorde) vorrebbe dire «primo». Dunque: «il primo giorno della settimana».

          Resta il problema che in ebraico la nostra «domenica», ossia il primo giorno della settimana, è ancora adesso yom ri̛šon (con il numerale ordinale, cf. «il primo dei mesi», Es 12,2), mentre qui abbiamo emera mia con il numero cardinale, ovvero il femminile di yom ̛eHad. Primo giorno sarebbe infatti emera prote.

          A questo punto occorre fare un passo indietro. Nel racconto della creazione (Gen 1,5) non si dice yom riš̛on, ma yom ̛eHad e i LXX hanno infatti tradotto emera mia, non prote). C’è perciò chi dice che quel «uno» non sia un semplice numerale, ma indichi un giorno unico e speciale, uno spartiacque tra realtà atemporale e temporale e, nella creazione, tra buio caotico e luce. È il giorno della distinzione, che segna il riscatto del disordine nell’ordine e della vita sulla morte.

          Del resto nel Primo Testamento sempre ogni riscatto corrisponde a una creazione e ogni creazione è un momento di riscatto e redenzione. Si veda per esempio Es 15,16, dove compare il verbo qanah che ha il doppio significato di «acquistare» e «creare» quando ha Dio per soggetto. Dio cioè riscatta ciò che crea e crea ciò che riscatta.

          Il giorno della risurrezione è dunque il giorno unico della creazione e del riscatto – e non dell’uomo soltanto, ma dell’intero universo. L’uno della settimana anche in Giovanni introduce la realizzazione dell’iniziale progetto divino e rende il giardino in cui il risorto compare l’autentico giardino edenico, in cui, quando si è chiamati, non ci si nasconde e non si ha paura.

          Infine: Lazzaro ha dovuto essere liberato dalle bende da qualcuno (Gv 11,44). Colui invece che era stato posto nello mnemeion (Gv 20,1) fa trovare teli (ta othonia) e sudario (to soudarion) ben piegati in due posti distinti (20,5.7).

          Dunque il corpo non è stato frettolosamente trafugato, né è incapace di autonomia, ma qualcuno se ne è semplicemente andato lasciando tutto a posto – se possiamo dire così. Teli e sudario sono dunque il segno della libertà di colui che si è consegnato alla morte e si è ripreso la vita come aveva promesso (cf. Gv 10,17-18).

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