Il Figlio dell’uomo
XXXIII domenica del tempo ordinario
Dn 12,1-3; Sal 15 (16); Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32
Le parole del Vangelo di questa domenica sono alquanto difficili da comprendere. Per prima cosa perché il linguaggio utilizzato è di stampo apocalittico, ovvero si tratta di un messaggio descritto con uno stile abbastanza comune in quel tempo, ma molto lontano dal nostro modo di esprimerci. Lo stile apocalittico usa infatti immagini cosmiche, eventi catastrofici che, lungi dal voler creare terrore o spavento, hanno invece la funzione di rendere solenne e autorevole il messaggio che contengono. Come dicevo, il linguaggio apocalittico era abbastanza conosciuto al tempo di Gesù e vi erano scritti – come Daniele 7 (scritto circa nel 160 a.C.) ma anche testi che circolavano in quel tempo e che oggi definiamo «apocrifi del Nuovo Testamento» –, che utilizzavano proprio questa tipologia di immagini.
Ed è proprio il testo di Dn 7,9-14 che fa da sfondo alle parole di Gesù. In questo testo, situato nella Bibbia cristiana nella sezione dei Profeti e in quella ebraica nella sezione degli Scritti, appaiono due figure divine: una viene descritta come un anziano – «un anziano di giorni» – che siede su un trono; accanto a questo trono ve n’è un altro con un’altra figura divina (Dn 7,13), descritta come uno «simile a un Figlio dell’uomo» a cui l’anziano dà «potere, gloria e regno»: «Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7,14).
Inoltre, particolare importante e non sempre messo debitamente in luce, nel racconto evangelico nessuno chiede a Gesù che cosa significhi «Figlio dell’uomo», segno che tale figura era ben conosciuta, come era anche ben chiaro il messaggio racchiuso nel testo di Daniele. Un messaggio, per l’appunto, di redenzione messianica, dove l’aspettativa non era tanto quella di una restaurazione del casato di Davide e di una liberazione dal dominatore di turno, quanto quella di un intero mondo redento, restaurato; e il tutto in completa sintonia con Dio, così come viene esplicitato nel brano evangelico: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all'estremità del cielo».
In sintesi, dunque, il Figlio dell’uomo, descritto da Daniele e a cui Gesù fa riferimento, ha le seguenti caratteristiche: è una figura divina; è in forma umana; sarà intronizzato nell’alto dei cieli; riceverà potere e dominio sul mondo intero; e, non in ultimo, la sua azione redentrice avrà carattere universale.
L’elemento di novità che il testo evangelico aggiunge a questa aspettativa messianica è proprio il dichiarare che il Figlio dell’uomo è già qui ed è presente, è lo stesso Gesù che parla; non è «qualcuno che deve venire» ma è già qui, adesso, e quanto avverrà in seguito, compresa «la grande tribolazione» di cui Gesù stesso parla e che probabilmente si riferisce alla sua passione e morte, non è che l’inizio di quanto sarà compiuto in pienezza.
Rimane l’ultimo passaggio del discorso di Gesù che rappresenta una vera crux per gli esegeti: «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre». Che il Padre conosca il giorno e l’ora della «pienezza» è accordo comune il considerarlo un chiaro riferimento a Zac 14,7: «Sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»; rimane di difficile comprensione, invece, il fatto che il Figlio non lo conosca. Ovviamente ci sono vari tentativi di spiegazione supportati da un’ampia argomentazione, ma nessuno di questi è finora risultato più convincente o più chiarificatore degli altri.
Senza dunque tentare un’ulteriore argomentazione di carattere esegetico – che sarebbe in questo contesto fuori luogo –, rimane comunque la possibilità di una considerazione a latere.
Non sappiamo se davvero Gesù fosse all’oscuro «di quel giorno o di quell’ora» o se sia Marco a voler affermare questo, ma ciò che risulta chiaro da tale affermazione è lo spazio, o meglio il tempo, che tale «non conoscenza» offre a ogni lettore e credente di ieri, di oggi e di domani. Lontano da ogni tentazione deterministica, è la libertà di ognuno che viene messa in gioco, la capacità nell’hic et nunc, nel «qui e ora» di ogni istante della propria vita di vivere l’«attesa» come dimensione costitutiva della propria esistenza, come orizzonte sempre presente verso cui tendere e attendere, come speranza di una «certezza» che si compie ogni istante in cui alziamo lo sguardo al di là del finito.