Il Dio della tenda

II DOMENICA DOPO NATALE
Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Così leggiamo nella traduzione della CEI il versetto di Gv 1,14 che fa parte del Vangelo di questa seconda domenica di Natale. In realtà, una traduzione più letterale sarebbe «e la Parola divenne carne e mise la sua tenda in mezzo a noi». Come mai si parla di una tenda? Da dove viene l’idea di descrivere l’incarnazione con l’immagine di una tenda? Per rispondere a questa domanda bisogna attingere a una delle regole fondamentali dell’ermeneutica biblica, ovvero al fatto che la Scrittura si spiega con la Scrittura.
Nel libro dell’Esodo, infatti, troviamo la prima inabitazione di Dio in una tenda, tenda costruita secondo le indicazioni che Dio stesso ha dato a Mosè sul Sinai e definita come «santuario», «dimora», «tenda dell’incontro». Ed è proprio così che si conclude la narrazione dell’Esodo: con l’inaugurazione di questa tenda di cui prende possesso la gloria di Dio sotto forma di nube. Da quel momento in poi il cammino del popolo, nella sua peregrinazione nel deserto, sarà segnato dall’alzarsi o abbassarsi della nube di Dio che indicherà così la sosta o la partenza, scandendo le diverse tappe del cammino. Non solo, la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in una tenda tra le tende, implica anche un cambiamento di vita: l’organizzazione di tutto e di tutti a partire dalla presenza visibile del Signore in mezzo a loro. In altre parole, la santità di Dio non si racchiude né tantomeno può essere racchiusa in uno spazio o in un determinato tempo, ma pervade tutti gli spazi e tutti i tempi; così, in ogni momento o luogo il popolo è chiamato a vivere alla presenza del Signore: «siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 11,44; 19,2; 20,7). L’immagine della tenda accompagnerà poi il popolo nella terra promessa e anche quando il re Salomone costruirà il tempio, questo sarà edificato secondo lo schema del santuario (tenda) descritto nell’Esodo e il ricordo della tenda sarà espresso da un telo posto all’entrata del Santo dei Santi.
Ecco allora che per Giovanni l’incarnazione del Figlio è l’ultima edizione di questa tenda, ovvero della visibile e tangibile presenza del Signore in mezzo al suo popolo. Anche in questo caso la componente umana è strettamente coinvolta, non nella fabbricazione di una tenda, ma nell’essere il luogo stesso dell’inabitazione di Dio. Meravigliosamente Dante esprime proprio questa idea nel canto XXXIII del Paradiso attraverso la preghiera alla Vergine di San Bernardo: «tu sei colei che l’umana fattura nobilitasti sì, che 'l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura». Nella tenda/carne del Figlio, Dio abbraccia tutta l’umanità perché tutta l’umanità possa ritrovarsi in Lui. Ciò che è estraneo e separato diventa familiare, prossimo, internamente intimo, ed è così che sant’Agostino lo esprime: «interior intimo meo et superior summo meo [più interiore del mio intimo e più in alto della mia parte più alta]» (Le Confessioni, III,6,11) affermando in questo modo che il Signore è più vicino a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi. E, come per il popolo dell’Esodo, anche per coloro che credono nel Natale, ovvero nell’incarnazione del Figlio, tutto cambia, a partire proprio dalla nostra umanità. Un’umanità che non è più estranea a Dio, che non è più separazione, distanza, ma che anzi diventa il luogo privilegiato dell’incontro con Dio, manifestazione della sua presenza nel mondo, della sua gloria, così come lo stesso Giovanni scrive: «e noi abbiamo contemplato la sua gloria». Anche l’incarnazione, il Natale, così come l’inabitazione di Dio nella tenda esodale, implica la santità: se Colui che è totalmente santo si è fatto «carne», anche la nostra «carne» è chiamata a vivere nella pienezza di questa santità, una santità che è inabitazione, vicinanza, costante presenza del «Dio con noi», dell’Emmanuel. Nulla di ciò che è umano, carnale, è più estraneo a Dio; è questo il vero, immenso, inalienabile «regalo» di Natale: la contemplazione della gloria di Dio nella carne del Figlio, nella sua umanità, un’umanità fragile, mortale e allo stesso tempo potente e forte come l’amore che solo l’essere umano, tra tutti gli esseri viventi, può, in questa terra, sperimentare.
Questo non è però l’ultimo atto, bensì il penultimo. Quando la carne del Figlio sarà «squarciata», anche la tenda del tempio si squarcerà in due — «Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38; Mt 27,51; Lc 23,45) — non per segnare la fine, ma per aprirsi all’ultima tenda di Dio; una tenda, questa volta, non più fatta da mani umane, ma da Dio stesso, dove in virtù di quella stessa umanità tutti i popoli troveranno posto, rifugio, consolazione e pienezza di vita: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).