b
Blog

Il comandamento nuovo

V domenica di Pasqua

At 14,21-27; Sal 145 (144); Ap 21,1-5; Gv 13,31-35

Giuda è appena uscito, «ed era notte» (Gv 13,30). Il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) non è rivolto a tutti i dodici apostoli. Il comando antico prescrive di amare sia il prossimo (Lv 19,18) sia lo straniero (Lv 19,34). Il Discorso della montagna, calcando la mano su un precedente, inesistente precetto («odierai il tuo nemico», Mt 5,43), ordina di amare i nemici (Mt 5,44). In tutti questi tre casi il centro del discorso non è occupato dalla reciprocità. Il comando è rivolto a chi è chiamato ad amare senza mettere in campo il contraccambio preventivo di essere riamato. Anzi, nel caso del nemico il comandamento è diretto proprio a rompere, unilateralmente, la reciprocità malefica tipica dell’inimicizia. L’essere amici trova invece nella reciprocità una sua condicio sine qua non. L’amicizia è paragonabile ai patti che si stringono, si osservano o si infrangono proprio perché sono bilaterali.

«Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Si è di fronte a una dissimmetria. Gesù non chiede la reciprocità; egli non afferma: come io vi ho amato anche voi amatemi. Gesù domanda l’amore reciproco tra i discepoli. All’interno dei «discorsi di addio», il tema sarà ripreso più avanti. L’essere amici di Gesù è posto all’insegna dell’obbedienza. Questa condizione dipende da un «se... allora»: «voi siete mie amici, se fate ciò che vi comando» (Gv 13,14).

Di primo acchito l’ubbidire suona una realtà poco compatibile con l’amicizia. Essa implica infatti la disuguaglianza e non già la parità. Per Gesù non è però la scomparsa del riferimento all’obbedienza a contrapporre la condizione di servo a quella di amico. La differenza tra le due situazioni sta nel fatto che i servi eseguono senza sapere cosa fa il loro padrone, mentre gli amici sanno: «Ma io vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). L’amicizia esige la comunicazione. Oggi se ne è consapevoli, ma troppo spesso ciò è vissuto in forme superficiali, se non addirittura dissipate. 

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi ho comandato» (Gv 15,12-13). Vi è un esempio da imitare, ma anche un’asimmetria da custodire. Pietro non comprese la connessione di questi due fattori. L’apostolo imboccò, inconsapevolmente, la via del rinnegamento proprio quando disse: «Darò la mia vita per te» (Gv 13,37). Gesù non comanda di amarlo, né chiede di dare la vita per lui. Ordina ai discepoli di amarsi gli uni gli altri. Il dare la vita per gli amici comporta prima di tutto vivere nell’amore reciproco giorno dopo giorno. Il morire per gli altri può essere gesto grande ma, per definizione, non reciproco. 

Inteso in modo sacrificale, l’atto di dare la vita è esposto a degenerazioni aberranti. In giorni recenti ne abbiamo avuto un’inequivocabile conferma. Il 17 marzo scorso, nell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea, Vladimir Putin, davanti alla folla radunata allo stadio Luzhniki, ha citato, ripetendo più volte le espressioni sacra Scrittura e cristianesimo, proprio il versetto secondo cui non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici: «Questo è un valore universale per tutte le confessioni in Russia e in particolare per la nostra gente».

Tentare di giustificare una brutale invasione con una pseudocitazione evangelica è un procedimento che porta con sé il sigillo dell’empietà. Tuttavia, come avvenne con Giuda sprofondato nella notte, anche l’aberrazione del presidente russo può fungere da sfondo oscuro che aiuta a capire quanto grave sia il fraintendimento di comprendere il «dare la vita» solo in modo martiriale e sacrificale (per non dire eroico). Il Figlio disse di sé: «Io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). A nessuna creatura umana è concesso ripeterlo.

Lascia un commento

{{resultMessage}}