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Gli abusi e il potere

Nel mese in cui si moltiplicano le iniziative per l’eliminazione della violenza di genere, la piaga degli abusi non può essere ignorata.  Pare a volte invece che ci stiamo abituando o che ne individuiamo le cause in maniera parziale, dunque inadeguata. Forse anche perché ne facciamo un discorso solo interno? O perché mascheriamo l’esercizio del potere chiamandolo servizio? Indagarne il meccanismo nella sua complessità e consentire lo sguardo esterno su di esso è un compito a cui non possiamo sottrarci

 

Sembra che parlare di abusi sessuali, di coscienza e di potere in ambito ecclesiale non susciti più sorpresa, né scandalo o smarrimento e neppure il primordiale istinto difensivo che porta a negare anche le più comprovate evidenze. Abuso è una parola che abbiamo ormai addomesticato e che compare sempre più spesso anche nei documenti istituzionali, nelle lettere pastorali, persino nelle nostre liturgie penitenziali. L’intensità con cui colpisce e lacera l’esistenza delle vittime, anche dopo molti anni, è tuttavia inversamente proporzionale all’emotività collettiva che si è invece abituata in fretta, molto probabilmente per una sfiducia già consolidata e diffusa nei confronti della Chiesa, una passività verso le sue contraddizioni. 

Tentativi parziali di interpretazione

Tra coloro che perseverano nella scomoda posizione di interrogare i fatti e di chiedersi perché accadano, si incontrano principalmente tre tentativi di ermeneutica. 

Il primo attribuisce la realtà degli abusi al clericalismo, aggravato dalla diseguaglianza di genere. In altre parole, l’origine dell’abuso sarebbe da ricercare nella disparità di potere tra il presbitero-uomo e il resto del popolo di Dio, soprattutto donne. Tale asimmetria riscontrabile a livello ecclesiologico, sacramentale, liturgico e di leadership rappresenta un’ingiustizia che, nella sua versione istituzionalizzata, è già di per sé perpetuazione secolare di un abuso di potere. 

Il secondo tentativo si concentra sulle nuove comunità e movimenti ecclesiali nati prevalentemente dopo il Concilio Vaticano II, individuando in essi un ambiente di coltura degli abusi, ad essi particolarmente propizio. In questo caso sono soprattutto la figura del fondatore/fondatrice investiti di un’ambivalente carismaticità e la configurazione istituzionale tendenzialmente settaria a costituire la porta di ingresso dell’abuso spirituale e delle altre forme di abuso ad esso connesse. Lo scandalo degli abusi nella Chiesa sarebbe quindi da circoscrivere prevalentemente dentro i confini di quelle nuove realtà ecclesiali fondate nel contesto spirituale e culturale del postconcilio e benevolmente favorite dai Vescovi e dalla curia romana.

Il terzo tentativo è piuttosto orientato al profilo della vittima e vede nella sua presunta o reale vulnerabilità la prima causa che rende possibile l’abuso. Compito dell’istituzione sarà quindi quello di proteggere e tutelare coloro che, in virtù della loro fragilità, sono particolarmente esposti al rischio di subire un abuso in ambiente ecclesiale. 

Si tratta di ipotesi che presentano tutte elementi di verità e provocazioni imprescindibili per comprendere le dimensioni degli abusi nella Chiesa. Nello stesso tempo, offrono una visione di causa-effetto lineare, con l’individuazione di capri espiatori ben definiti e rischiano pertanto di schivare lo scoglio della complessità e la diramazione sistemica che ne deriva. Non è il profilo dell’abusatore soltanto, né tanto meno quello della vittima, né il contesto spiritualmente deviato o la scarsa vigilanza da parte dell’istituzione ecclesiastica a provocare, da soli, il darsi di un abuso quanto piuttosto l’interazione tra tutti questi elementi e la risultante complessa che ne deriva.

La questione del potere

Al centro o, meglio, alla radice ultima di tale interazione troviamo la questione del potere nella sua valenza antropologica, nel significato religioso con cui si propone e nella sua attuazione pratica. 

Certamente, il fatto che, da sempre, la fetta più ampia di potere sia mangiata da uomini/presbiteri, fa sì che ci sia una sproporzione numerica assolutamente importante nel numero degli abusatori maschi. Ma un allargamento di questo potere alle donne risolverebbe ipso facto il problema? È un’ipotesi che rischia di diventare ideologica e poco utile alla risoluzione del problema; ce lo dimostra anche la dolorosa realtà degli abusi di potere all’interno di conventi e comunità esclusivamente femminili. 

Il punto di svolta potrebbe essere allora quello di riconsiderare il tema del potere come realtà umana imprescindibile e come parte integrante anche del vissuto religioso. 

Partiamo dal presupposto che un abuso nasce sempre all’interno di una situazione di asimmetria di potere, ovvero in un contesto relazionale in cui una persona ha più potere dell’altra e, in un certo senso, “sull’altra”. Non è la situazione asimmetrica a generare tout court l’abuso, che può configurarsi nel quadro più prossimo alle relazioni di cura, come quella tra genitori e figli/e o tra un medico e il suo paziente. Ma è il modo in cui tale asimmetria viene agita, nelle sue intenzionalità e nelle sue forme, a decidere per una relazione sana e liberante o, al contrario, per una relazione abusante e mortifera. 

Nella sfera della religione, poi, tale asimmetria si riveste di sacralità, ovvero viene esercitata da uomini e da donne che agiscono in nome di Dio. E come la sociologia ci insegna, la dimensione del sacro conferisce un potere di massimo grado, tremendum, fascinosum e augustum. Un vero e proprio cocktail esplosivo se messo nelle mani di uomini e donne affettivamente immaturi o poco preparati dal punto di vista umano e spirituale. 

Comprendere il potere in chiave evangelica, riconsiderarne le implicazioni anche nel ministero e nella vita consacrata, formarsi alle dinamiche psicologiche e spirituali ad esso connesse dovrebbe costituire materia di studio e di tirocinio e diventare oggetto di supervisione e verifica costanti all’interno di ogni progetto ministeriale. 

Il vocabolario del servizio è pericoloso

Non è ancora questa la realtà. Continuiamo a sostituire la parola “potere” con il più innocuo “servizio” mascherando di buone intenzioni qualsiasi forma di privilegio, di asservimento e di spadroneggiamento. Chi potrà mai accusare di abuso di potere qualcuno che sta solo “servendo”? E come arginare gli eccessi di servizio anche quando si rivelano deleteri?

Forse una pagina nuova, anche per la Chiesa cattolica, potrebbe aprirsi se osassimo far cadere quest’ultimo tabù: se umilmente riconoscessimo il potere che esercitiamo, ne ponderassimo i rischi, le potenzialità e le risorse. E anche se accettassimo cammini condivisi ed esterni di discernimento e di verifica.

 

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